Pubblichiamo l'introduzione alla Furia dei cervelli, scritta nel settembre 2011, come atto di solidarietà, complicità e cospirazione con Chiara Di Domenico, amica, sorella e compagna. Nel suo appassionato intervento sul precariato, ad una convention elettorale del Pd, ha detto:
"La verità è scandalosa, ma lo status quo è osceno. Io mi sono stufata di vedere mogli di, figli di, fratelli di nei posti migliori. Io faccio nomi e cognomi: Giulia Ichino, a 23 annì, è stata assunta come editor della mondadori. Della più grande casa editrice italiana, a soli 23 anni, mentre un mio amico, giornalista precario per un quotidiano di sinistra, resterà precario chissà fino a quando".La risposta dell'editor che quest'anno ha vinto il premio Strega con il libro "Inseparabili" di Alessandro Piperno non si è fatta attendere. Oggi è stata intervistata da molti giornali dove ha potuto esporre il suo punto di vista. Una reazione apparentemente spropositata, un'inusitata dimostrazione di potenza, per giustificarsi alla luce delle parole di Chiara. Al di là delle sue ragioni, raccontiamo un incontro con l'illustre genitore. Perché oggi il lavoro (culturale) - o il "mestiere" - non è forse solo una questione di parentela.
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Notte di mezza estate romana Duemilaundici, nel ventennale dall'inizio degli anni flessibili e intermittenti, tra il Senato e il Teatro Valle occupato, sotto gli auspici della lanterna del Borromini di Sant’Ivo alla Sapienza, irraggiungibile Torre di Babele.
Non c'è tempo per le presentazioni con la giornalista televisiva, autrice di un libro dove si teorizza che è meglio fottere che essere comandati da “questi”, e con quella con il laptop d'ordinanza, che difende i diritti degli stagisti. Siamo già nel Palazzo alla ricerca dello studiolo del parlamentare dell'opposizione. Il Giuslavorista ci accoglie con fare frugale e schietto, da brava persona, concreta e pragmatica. Ha poco tempo, dieci minuti, interrotti da telefonate, ci fa accomodare. Sta cercando un modo per sanzionare l’abuso del lavoro intermittente e flessibile e, soprattutto, la disparità di trattamento rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato. Vuole rivolgersi alla Commissione europea per “mettere fine al precariato in Italia”. Abbiamo sudori freddi: il precariato siamo noi! Non sarebbe meglio parlare di fine della precarietà?!
Il confronto è franco, tra molte occhiatacce, parliamo di un articolo che ha pubblicato sul Corriere della Sera insieme a un economista di “opposizione” passato al gruppo misto e un capitalista di Stato che aspira a prendere il posto di un altro imprenditore al governo. Sembra una barzelletta, ma è tremendamente seria. Tutto quello che è accaduto in questo paese è sbagliato, questo è il succo dell'articolo. La nuova “classe dirigente” deve convertirsi per eliminare l'apartheid del precariato, dei bassi salari, dei giovani senza pensione. Lodevoli intenzioni. Sarà forse perché non si può fumare, e questo ci innervosisce, ma sembra di ascoltare San Paolo.
Ma la conversione che illuminò il cuore del santo, prima della mente, non servì anche a sbalzarlo da cavallo? Non sarà così nel paese dove i fedeli si convertono, ma le accolite resistono. E le vecchie ricette assumeranno il sapore del nuovo: la soluzione per salvare il paese dal default è la riproposizione dell'irenico patto tra i “produttori”, o quello meno truce e più accomodante del “patto intergenerazionale”. I presupposti che hanno generato l'apartheid non saranno mai affrontati e risolti.
In queste proposte riascoltiamo l'eco delle sirene, quando il centro-sinistra poteva ancora governare, forte della concertazione, e la crisi economico-finanziaria era solo agli albori. Era appena esplosa la bolla delle dot-com, ma non la capirono e, anzi, gettarono le basi per rendere il maleficio insuperabile. Oggi è fallito un intero sistema, la soluzione è rimandata al prossimo governo di tecnici illuminati convertiti che salderà i debiti di una moltitudine di individui persi nella nuova grande trasformazione delle forme del lavoro, che le rappresentanze sindacali e la tradizionale sinistra politica hanno ignorato e le forze industriali hanno spremuto fino alle midolla. L'unica soluzione per la precarietà resta l'immenso centro spettacolare per l'impiego, prevalentemente femminile, che dal Grande Fratello porta dritto ad Arcore.
La speranza che anima anche il Giuslavorista è il lavacro del mondo. Basterà questo semplice atto di fede per tranquillizzare freelancers, autonomi, indipendenti, nuove e vecchie partite Iva, intermittenti della retribuzione e delle commesse che versano i contributi puntualmente in gestione separata, ma non hanno garanzie e domani non avranno mai una pensione? Illusioni. Oggi queste persone non conoscono un contratto decente. Raramente un reddito dignitoso. Non sanno cosa vogliano dire assegni familiari, tutele sociali, malattia, maternità e ferie pagate. In fondo, non sono neanche consapevoli di avere dei diritti. Sono giovanissimi, ma anche molti over-40, che incontrano la solitudine dei più anziani, espulsi dal mercato del lavoro con l'avvio della crisi globale e ora non più reintegrabili.
Quasi subito capiamo una cosa, decisiva: il gentile e insigne Giuslavorista da trent’anni, nonché parlamentare da poco, ha preso a cuore la denuncia dell’abuso del precariato perché lo sente molto da vicino. E quando si dice “da vicino” è da intendere in senso letterale. Prende il telefono, compone il numero della figlia, per farsi ulteriormente spiegare com’è la sua condizione di neo-contrattista in una grande impresa editorial-culturale del Nord, dove la giovane precaria ha le stesse incombenze, orari, compiti, lavori, vessazioni dei suoi colleghi assunti a tempo indeterminato, ma senza i loro beni minimamente materiali e con nessun diritto: dalla mancanza di penne e matite, all’assenza di malattia e ferie retribuite, maternità. Per non parlare del reddito, bassissimo. Tacendo dei contributi, che chissà chi li verserà mai. Riattaccando il telefono, con ampio e flemmatico gesto del braccio, ci interroga: «Capite ragazzi, cosa succede in questo Paese!? Che razza di abusi!?»
Di fronte a questa epifania ci domandiamo dove abbia mai vissuto il Giuslavorista negli ultimi vent’anni. Soprattutto ci viene da chiederlo alle altre che erano nella stanza, quando all'uscita accendiamo la sigaretta repressa. La risposta è solo un rimbrotto sul ritardo. Non si può far aspettare il Giuslavorista più famoso d’Italia: «ricordatevelo la prossima volta!».
Quale prossima volta?
Leggi qui un articolo di Chiara, pubblicato da Il Manifesto.
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Leggi qui un articolo di Chiara, pubblicato da Il Manifesto.
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Mi presento. Mi chiamo Chiara Di Domenico, sono la prima laureata della mia famiglia: una laurea in Lettere, vecchio ordinamento, che pensavo di utilizzare per insegnare, ma poi qualcuno ha deciso che ci voleva una specializzazione, e mi sembrava stupido ripetere gli stessi esami solo perché era stato deciso così.Sono diventata libraia alla libreria Martelli di Firenze (catena Edison, la stessa che ha appena messo in cassa integrazione tutti i suoi dipendenti), dove un incauto business plan ci ha sballottato fuori dalla libreria in 11 e sparpagliati nelle altre librerie, fino a lasciarci per strada.
Così ho continuato a lavorare, testardamente, nell'editoria. Ho fatto un master universitario, e senza passare per lo stage ho iniziato a lavorare con le edizioni Fernandel. Chi mi conosce sa la storia dei miei ultimi anni. Non vale la pena ricordarla nel dettaglio qui, perché non è che una delle tante. Proprio per quella storia, che è una storia vincente, visto che oggi posso permettermi di investire 600 dei miei 1.200 euro di stipendio in un monolocale a Roma, il Pd mi ha scelto giovedì per parlare di lavoro. Esordendo l'ho detto: «Sono la precaria ignota», rappresento una categoria che stringe i denti e sacrifica tempo e fatica nella speranza di un po' di normale stabilità. Non sono tesserata Pd, non sono mai stata tesserata. Insieme ad altri precari da due anni organizziamo un festival, «Mal di Libri», che dà voce ai tanti (bravi) scrittori e lavoratori ignoti che hanno difficoltà a trovare spazi.
Oggi lavoro per una casa editrice che rispetta il mio contratto a progetto.Ieri ho parlato per 8 minuti del nostro lavoro. Di chi si è stancato di firmare un contratto a progetto senza obbligo di ore e si ritrova paradossalmente a fare straordinari che non gli verranno mai pagati. Di chi è costretto ad aprirsi la partita iva pur avendo un solo datore di lavoro. Di chi viene mandato a casa, sostituito da un apprendista, perché così è lo stato a pagare le tasse, e non il suo datore di lavoro. Per anni accetti. Ti metti in gioco. Poi ti accorgi che passano gli anni e niente cambia.
Per anni mandi lettere, come un San Girolamo dal deserto, ai giornalisti, ai direttori di testate, agli uomini e donne di spettacolo e di cultura. Alcune sono diventate note sul mio profilo facebook. Una volta ho invitato il direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano a venire nel mio quartiere a conoscere i precari di cui parlava spesso. Ha voluto il mio numero, mi ha detto «La contatteranno». Silenzio.Ho scritto una lettera a Federico Fubini, giornalista del Corriere della Sera, che portando ad esempio Angelo Sraffa dice che siamo incapaci di farci sentire. L'ho invitato a una cena collettiva, lui mi ha proposto un incontro nella sua città. Allora ho deciso di farci sentire.
C'è un elefante, nel salotto letterario dove lavori ogni giorno. È davanti agli occhi di tutti, ma tutti fanno finta di niente. E quell'elefante è un ricco collage di ruoli e nomi noti. È forte a destra come a sinistra, e quella parte sinistra fa ancora più male. Io ieri ne ho fatto uno di questi nomi, non per attaccare, ma perché in questo paese, in un sistema di informazione ormai improntato solo sullo scandalismo, devi fare scandalo per fare sentire la voce tua e della classe che rappresenti. Ho fatto un nome che conosco, quello di Giulia Ichino, perché mi ha colpito leggere che è stata assunta da Mondadori negli stessi anni in cui in Italia si attuava la Legge Biagi. Mi ha colpito che fosse stata assunta a 23 anni quando molti di noi a quell'età hanno giusto la possibilità di uno stage non retribuito. In questo paese è ancora legittimo stupirsi e avere libertà di parola. Ho detto che c'era un elefante nel salotto letterario. E l'elefante finalmente si è accorto del topolino. Si è alzato, ha gridato «allo squadrismo».
Ha detto che ero strumentalizzata dal Pd, come se non sapessi leggere e pensare da sola. Non importa. Non sono una squadrista. La libertà di parola vale per me e per tutti. Ma è importante riportare l'attenzione sui precari, chè è il motivo di tutto questo rumore. Giovedì l'ho detto a Bersani e a tutto il gotha del Pd presente: chi ha potere ha responsabilità. Ha responsabilità Bersani, nel proporsi come prossimo Presidente del Consiglio, nel riformulare una legge sul lavoro che permetta un futuro, una casa, un'istruzione e una pensione agli italiani di oggi e di domani. Ma ha una responsabilità anche chi ricopre ruoli stabili nelle aziende, nel tutelare chi è più debole. In Mondadori non sono tutti assunti.
Molti lavorano a contratto a progetto, peggio a partita Iva. Chi è testimone di questa disuguaglianza deve intervenire. Ora che tutti guardano l'elefante bisogna intervenire, e occuparsi di chi è costretto a non partorire, a vedersi decurtare lo stipendio pur di avere un lavoro, a chi si ritrova a pagare migliaia di euro di tasse perché il suo datore di lavoro lo vuole ma non vuole prendersi i rischi di un'assunzione. Chi prende i tram, chi ascolta i discorsi per strada, lo sa quanto questo è diventato frequente. Troppo frequente. Io sono solo un topo, che ha osato guardare negli occhi un elefante. Mi hanno accusato di un «attacco ingiusto». Non ho mai alzato la voce. Non ha mai minacciato. Mi sono solo chiesta come si possa andare avanti a fare finta di niente. A guardare indifferenti chi non ce la fa più.
A vedere le differenze e dire che siamo uguali. Io sono uguale a V. a cui è stato proposto di licenziarsi dal suo tempo indeterminato per farsi riassumere quando avrà finito il periodo di maternità. Sono uguale a chi non dorme più. E tutta l'istruzione, tutta la cultura illuminista, e i diritti acquisiti negli ultimi cinquant'anni, mi dicono che anche il figlio di un tramviere ha diritto di fare, bene, e sereno, il lavoro per cui ha studiato. E se molte persone hanno la fortuna di crescere con una bella biblioteca in casa, anche altri hanno diritto di usufruire delle biblioteche e delle scuole pubbliche. Quelle che stanno cercando di toglierci, quelle per cui fino ad ora si è fatto troppo poco. È lotta di classe questa?
A me interessa solo che i diritti valgano per tutti. E che si regolamenti, finalmente, il mercato del lavoro, sui diritti, e non, come qualcuno ha detto, sulla fortuna. Facciamo delle nuove quote. Dopo le quote rosa, facciamo le «quote qualunque»: per ogni cognome eccellente assunto, due ignoti meritevoli assunti. Non è una provocazione, non è aggressione, forse sì, è lotta di classe.
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