Il reddito di base? Ce lo chiede l’Europa. E da più di vent’anni, perché la raccomandazione numero 441 risale al 1992 quando l’allora Comunità economica europea intimò di adottare questa misura tuttora assente nel nostro paese. Ma sin dai tempi della Prima Repubblica, la gran parte delle forze politiche hanno fatto finta di niente. Oggi c’è chi ha preso sul serio l’Europa. La proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo è stata depositata con più di 50 mila firme. Un’iniziativa che non ha uguali nella storia ultra ventennale dei movimenti che hanno creduto nella prospettiva del reddito di cittadinanza in Italia. 170 associazioni e partiti come Sel, Prc e Pdci torneranno in parlamento tra un mese per chiedere al nuovo governo, di approvare nei primi cento giorni della legislatura una misura fondamentale per rendere più dignitoso il welfare più familista, classista e inefficiente dei paesi dell’Unione Europea.
La proposta di legge cerca di rispondere «al default sociale» che ha colpito, trasversalmente i giovani «neet», gli «over 50», i pensionati, ma soprattutto i precari «di prima e seconda generazione», quelli che oggi hanno tra i venti e i quarantanni. Prevede l’erogazione di un reddito di base di 600 euro mensili, 7200 all’anno, per un totale di 10 miliardi di euro da finanziare attraverso una non più rinviabile ristrutturazione degli ammortizzatori sociali, destinando a questo scopo una parte dei fondi della lotta all’evasione fiscale, della spending review e quelli che derivano dall’abolizione delle provincie.
Una proposta pragmatica che non ha bisogno di nuove tasse per essere realizzata in un paese che, insieme a Grecia e Ungheria, non dispone ancora di un «elementare strumento di civiltà sociale» come l’ha definita il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli. Il reddito minimo è da tempo oggetto di studi di fattibilità da parte delle regioni e di vere e proprie leggi come quella del Lazio del 2009, che ha ispirato i promotori della proposta di legge, ma non è stata più rifinanziata dalla giunta Polverini.
«In assenza di mezzi di sussistenza – sostiene Ferrajoli – la persona è esposta ad ogni ricatto. Seicento euro sono pochi, ma permettono alla persona di resistere e di affermare il suo diritto all’esistenza libera e dignitosa».
Una consapevolezza particolarmente sentita da quando la disoccupazione, o l’inoccupazione, sono diventate realtà di massa. «Il paese è pronto a recepire una proposta equilibrata e fattibile come questa – aggiunge Fausta Guarriello, docente di diritto del lavoro all’Università di Pescara – anche se le parti sociali come i sindacati sono ancora poco sensibili perché credono ancora che il reddito sia contrapposto alle politiche del pieno impiego».
«È proprio l’opposto – dice Stefano Rodotà – siamo testimoni di un cambiamento epocale che non ci permette più di considerare la precarietà come una condizione transitoria nella vita lavorativa di una persona. Come al tempo dell’aborto e del divorzio, oggi il paese è pronto per istituire il reddito di cittadinanza. È giunto il tempo per la rivoluzione della dignità».
La proposta di legge sul reddito minimo è stata scritta alla luce della risoluzione del Parlamento europeo del 10 ottobre 2010 nella quale si sottolinea il dovere degli stati più colpiti dalla crisi, in particolare Italia e Grecia, di adottarlo in quanto misura indispensabile per contrastare l’esclusione sociale e le discriminazioni. La cifra di 600 euro corrispondente al 60% del reddito mediano come previsto dalla risoluzione europea. Questi 600 euro sono proporzionati agli indici Istat sulla povertà relativa e nucleo familiare. La durata del sussidio non è vincolata ad un periodo determinato, ma al miglioramento complessivo della situazione individuale.
Beppe Grillo continua a fare la sua battaglia elettorale sul reddito di cittadinanza. Anche lui lo vuole istituire nei primi 100 giorni, dovrebbe durare tre anni da finanziare con il taglio all’editoria e delle spese alla politica e ai militari, oltre che dalle concessioni statali al gioco di azzardo.
I promotori della proposta di legge popolare non escludono una collaborazione anche con Grillo. Sono pragmatici e “se ci sarà l’opportunità parleremo anche con il Movimento 5 stelle” affermano. La geometria delle alleanze parlamentare dei movimenti, delle associazioni e delle persone che hanno realmente il polso di un paese in default sociale potrebbe sorprendere i politici di professione.
Come si può immaginare oggi, per non parlare di domani, un’alleanza in nome del reddito minimo in un parlamento che sarà molto probabilmente ingovernabile, con un governo molto debole squassato dalle tensioni tra Sel e Scelta Civica di Mario Monti che lo porterà a chiudere i battenti dopo poco più di un anno?
Questa pazza idea per la prossima legislatura è invece possibile. Perché i veti incrociati bloccheranno praticamente tutte le iniziative di intervento strutturale, ma forse potrebbero astenersi sull’unica, sensata, ragionevole misura per garantire l’autonomia delle persone nella crisi che peggiorerà ancora nel prossimo biennio.
Certo, tra M5S e la sinistra non c’è nulla in comune. E, probabilmente, i grillini si prenderanno lo spazio dell’opposizione sociale, trasformandolo nel palcoscenico del risentimento di massa e del populismo d’assalto. Tutto lascia immaginare che verranno anche i numeri in parlamento. Ma alla sinistra di Sel può interessare un contrappeso al rapporto tra il Pd e Monti che minaccia di cancellarla del tutto? E lo stesso discorso non vale anche per gli “ingroiani”, se riusciranno ad arrivare in parlamento? Si può pensare, pazza idea, ad un’alleanza pragmatica sul reddito – e ad una battaglia parlamentare e nella società – per istituirlo ben sapendo che Monti e Bersani non ne hanno la minima intenzione?
Perché Pd e Scelta Civica qualcosa faranno e sarà una misura pensata per il sostegno alla “sopravvivenza” e di consolazione dei “poveri”. Nulla a che vedere con il contenuto della proposta di legge e, forse, con quello che ha in testa Grillo.
Come ha notato Stefano Rodotà: «Per Monti la vita degli esclusi è pura e semplice nuda vita. Quello di cui noi dobbiamo guardare è l’esistenza libera e dignitosa». Bersani, sotto la spinta crescente di Grillo e, perché no, della proposta di legge sul reddito in campagna elettorale ha finalmente aperto al reddito, ma sempre vincolandolo ad un'estensione degli ammortizzatori sociali. Un'apertura non indifferente visto che nei giorni scorsi il segretario del Pd ha oscillato in maniera imbarazzata tra salario minimo e reddito di cittadinanza. E' consapevole che la Cgil è alle prese tra il niet deciso della Camusso al “salario minimo” e qualche senso di colpa sul “reddito continuità” inserito nel “piano del Lavoro”. Il punto è Sel, Grillo, il Pd riusciranno a percepire che il reddito è un diritto fondamentale sganciato dal lavoro, che è qualcosa di diverso da un ammortizzatore sociale per chi ha perso il lavoro?
E allora ecco una modesta proposta, per essere concreti, una volta tanto, a sinistra. Premettendo che la lotta per un nuovo Welfare contro la Grande Recessione è al livello europeo, la sinistra italica potrebbe trovare un accordo, nella palude litigiosa in cui si trova, con Grillo e con tutti quelli che ci stanno nel Pd, in Scelta Civica e nel governo che sarà, introducendo nella prossima legislatura una misura quanto più universalistica possibile di reddito garantito di base.
Sarebbe una pazza idea, formare una maggioranza parlamentare per il reddito di base alla luce della proposta di legge popolare appena presentata? Forse è chiedere troppo.
Recuperare trent’anni di ritardo è difficile per tutti. Figurarsi per la sinistra parlamentare che verrà
Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli
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