Salvo Barrano vive a Roma ed è il presidente dell'Associazione Nazionale Archeologi. Mattia Sullini, coworker, è il coordinatore di un FabLab e lavora a Firenze. Anna Soru è una ricercatrice freelance e coordina le attività dell'Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato di Milano. Sono lavoratori e lavoratrici autonome, formati e specializzati, pienamente inseriti nell'economia dei servizi immateriali, della condivisione, della formazione e della ricerca.
Hanno tra i trenta e i quarantanni e rappresentano un segmento del quinto stato, cioè della società operosa composta da lavoratori indipendenti, anche di tipo professionale, che dovrebbero trainare un'economia basata sull'innovazione sociale. Il decreto sul lavoro del governo Letta ha tracciato una linea di confine molto precisa: gli under 29, nati dopo il 1983, che non sono diplomati, oppure sono disoccupati da almeno sei mesi o hanno una famiglia a carico, potranno godere di 650 euro al mese per due anni. Chi invece, come loro, è diplomato, laureato o specializzato è del tutto escluso, praticamente cancellato.
Il "pacchettino" Letta
Il governo ha tracciato una linea d'ombra. Le sue misure contro la "disoccupazione giovanile" dovrebbero risollevare il destino occupazionale di 200 mila "giovani" entro il 2016, legandolo alla conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, all'assunzione tramite apprendistato (quindi ancora a termine) nei settori meno qualificati del lavoro, e in particolare in quelli poveri di formazione e qualificazione, soprattutto nel Mezzogiorno.
Il grande battage seguito all'aumento dei fondi europei contro la disoccupazione giovanile (1,5 miliardi di euro) riserva dunque un'amara sorpresa per coloro che, nati a partire dalla fine degli anni Sessanta, sono cresciuti nella "società della conoscenza,", hanno deciso di formarsi secondo le regole della formazione continua e della specializzazione, seguendo una delle prerogative della moderna economia dei servizi immateriali che non coinvolge solo il mondo delle professioni, ma tutto il lavoro indipendente.
Il grande battage seguito all'aumento dei fondi europei contro la disoccupazione giovanile (1,5 miliardi di euro) riserva dunque un'amara sorpresa per coloro che, nati a partire dalla fine degli anni Sessanta, sono cresciuti nella "società della conoscenza,", hanno deciso di formarsi secondo le regole della formazione continua e della specializzazione, seguendo una delle prerogative della moderna economia dei servizi immateriali che non coinvolge solo il mondo delle professioni, ma tutto il lavoro indipendente.
Il governo Letta propone una politica sociale di natura assistenzialistica, di ispirazione pauperistica e democristiana, basata sugli incentivi a pioggia. La sua idea di economia, e di produzione industriale, è molto influenzata da Confindustria, alla quale il governo ha donato anche un bonus da 5 miliardi di euro per l'acquisto di macchinari. Sempre nella speranza che questo serva a riavviare una "crescita".
Una crescita basata sulla struttura tradizionale, e chiaramente in crisi, della produzione manifatturiera, cioè il nanismo aziendale, la gestione familiare e non manageriale delle imprese, proprio quella che ha modellato negli ultimi decenni una struttura occupazionale basata sulla forza lavoro a termine, precaria, sempre meno qualificata. Insomma i soldi, quando ci sono, vanno al capitale fisso, immobilizzato nelle macchine e nei beni di consumo durevoli (elettrodomestici, mobili) e non per tutelare o estendere il lavoro vivo, i saperi, dei giovani e dei meno giovani. Alle imprese si offrono sponde istituzionali, e incentivi, ma non investimenti o innovazioni tecnologiche e organizzative. Non si interviene sul blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, uno degli strumenti per riqualificare i laureati o i diplomati, ma si continuerà a tagliare le "spese" e a ridurre il numero dei "precari" che lavorano da anni nella scuola, nell'università e in tutti i servizi pubblici falcidiati dalla spending review.
Promuovere l'indipendenza
«L'unica cosa positiva è che il governo ha trovato delle risorse - afferma Salvo Barrano, 37 anni, padre di una figlia, attualmente impegnato in un'indagine archeologica in un cantiere dell'aeronautica militare - Purtroppo è triste il modo in cui hanno deciso di spendere queste risorse che ricorda le vecchie politiche anni Ottanta tra l'elemosina e l'assistenzialismo. A me sembra che anche questo governo, non diversamente da quelli precedenti, non abbia capito la società attuale. Non l'ha capita, perchè non la conosce. Siamo in una società di servizi, che richiede formazione, nuove professionalità e innovazione. Avremmo bisogno di meccanismi che premino la voglia di crescere e invece si discrimina chi ha un titolo di studio da chi è in una situazione di effettivo disagio». Quella di Barrano non è una recriminazione, né un vittimismo. «Sia chiaro - precisa subito - io lavoro felicemente da freelance a partita Iva da più di dieci anni. Non mi piace essere inchiodato a fare lo stesso lavoro per tutta la vita. Ma non posso non vedere, attorno a me, milioni di donne tra i trenta e e i cinquant'anni, magari anche madri, che solo per il fatto di avere più di 29 anni vengono tagliate fuori da queste misure di sostegno. L'alternativa alla precarietà in cui viviamo da 20 anni è stimolare l'indipendenza e l'auto-organizzazione delle persone attraverso l'incentivo alle idee, la costituzione di imprese e società miste».
Il "fare" in comune dei cittadini
Mattia Sullini di anni ne ha 36 e lavora sull'implementazione delle nuove tecnologie. Coordina il Cowork Combo, affiliato alla rete CoWo, e con il suo FabLab partecipa al movimento dei «makers», cioè di coloro che lavorano al recupero del lavoro artigiano e digitale in maniera condivisa. Per lui la formazione del cittadino avviene anche attraverso il mutualismo e l'operare materialmente insieme. «Purtroppo questo decreto conferma le più fosche previsioni - afferma - le istituzioni dimenticano la società civile e i movimenti che la stanno caratterizzando. Non voglio passare per vittimista, la responsabilità è anche nostra che non abbiamo cercato una rappresentanza o un interlocutore capace di recepire le nostre istanze. In Italia esiste più di una generazione ormai formata per operare in un sistema di aziende o enti che non esistono più. Oggi ci ritroviamo sul mercato senza una narrazione o coscienza di noi stessi».
È questo disinvestimento sull'economia della conoscenza, un tempo assai frequentata dagli interventi e dalla retorica governativa, a colpirlo di più. «Tutti i parametri di questo decreto sono perversamente concepiti per escluderci. Il problema non è solo quello dei cervelli che fuggono ma anche quello dei cervelli che non vengono utilizzati. In fondo, è stato Monti il primo a considerarci una generazione perduta, oggi si continua l'opera».
Una rivoluzione culturale nel lavoro
Anna Soru solleva un altro aspetto. Il governo ha deciso di riformare solo la durata dei contratti a termine senza intervenire sull'aspetto più grave della riforma Fornero: l'aumento dei contributi previdenziali dal 28% al 33% per tutti gli autonomi iscritti alla gestione Separata Inps. «Se avessero deciso di cambiare questa norma per noi fondamentale avrebbero dovuto cercare coperture che non hanno - afferma - Aumentare i contributi e le tasse è una costante di tutti i governi, mai che rispondessero ai nostri bisogni, mai che ci garantissero delle tutele».
Questa decisione è ispirata ad una ben precisa idea di economia manifatturiera: stanzia 5 miliardi di euro per l'acquisto di macchinari e nulla per l'assunzione di lavoratori con competenze che aiutino queste imprese a comunicare meglio o a vendere i prodotti sui mercati esteri.
Per Anna Soru in Italia c'è bisogno di una rivoluzione culturale nel lavoro. Anche per questo lunedì Acta presenterà una proposta a sostegno degli investimenti in capitale umano e servizi immateriali e a favore dei lavoratori che operano in questi settori. Interventi fondamentali per non farli scomparire del tutto, schiacciati dal fisco e dall'Inps.
Roberto Ciccarelli
Caro Ciccarelli, di che ci meravigliamo? è il solito approccio centralista e burocratico all'economia: non è il mercato (cioè la libera interazione fra gli attori economici) che guida, ma l'insipienza dei politici che agiscono in base a stereotipi e interessi di parte (in primis quelli della lobby sindacale). Ai politici (e ai sindacati che fanno da suggeritori) dovremmo chiedere una cosa sola: nulla! se non il diritto di esercitare la nostra attività con regole uniformi, universali, e senza essere ammazzati da tasse e contributi senza confronti in nessuna economia libero-capitalista. Ma trovo che su questo ci siano molti equivoci anche da parte dei movimenti e delle associazioni di lavoratori atipici e precari, che ancora si rivolgono a politica e sindacati pensando che questi possano cambiare la loro situazione economica e la possibilità di avere un progetto di vita decente.
RispondiEliminaribloggato
RispondiEliminahttp://noi-nuovaofficinaitaliana.blogspot.it/