Aldo Bonomi
Dai
territori s’avanza uno strano conflitto. Senza luoghi idealtipici,
la fabbrica, il quartiere, senza un mestiere, una professione, una
classe egemone. Senza rappresentanze codificate e riconosciute.
Molecolare, diffuso. Più da rondò e casello autostradale che da
manifestazione tumultuosa che attraversa il centro delle città. A
bassa intensità. Se si escludono quelli che vogliono cavalcare la
piazza nella logica sterile dei violenti senza popolo, a cui non par
vero di vedere un popolo. Ma ad alta intensità interrogante per la
crisi della politica e della rappresentanza. Sono i forconi. Io li
definisco il popolo del NON PIU. Che non ce la fa più.
So che la
parola popolo è una parola impegnativa per definire una moltitudine:
la massa priva del sistema ordinatorio delle classi a cui eravamo
abituati. Quindi capisco chi si è affrettato sbrigativamente a
definirli populismo. Togliendo loro anche la dignità di essere un
magma dove ribolle la questione sociale. Il disagio sociale di una
crisi che una metafora radicale vede come l’1% di salvati e il 99%
di sommersi. O più banalmente l’apparire nel 2013 dei costi
sociali di una crisi che nel suo non finire scava nel profondo della
composizione sociale e produttiva del paese.
Vengono più dai “campi”
che dalle “officine”, dal territorio. Sono il prodotto della
desertificazione di cicli produttivi e sistemi territoriali, il non
più, che avevano caratterizzato l’economia della nazione,
l’Italietta che ha cercato il suo spazio di posizione nella
globalizzazione e di resistere alla crisi. Non sono forse state
Torino e Genova l’epicentro della crisi del fordismo? Con i loro
buchi neri.
Dal porto con la crisi della logistica minuta dei
padroncini, alla FIAT che sta a Detroit e promette di tornare a
Mirafiori. Da qui operai licenziati, cassintegrati, con intorno le
piccole imprese dell’indotto in sofferenza. Il tutto è
rovinosamente caduto addosso al commercio minuto delle bancarelle,
dei mercati rionali, al commercio diffuso, producendo intere strade
di negozi fantasma… In più tanti, troppi, giovani senza più
futuro.
Mi si dirà che, a fronte di questo quadro desolante, occorre
guardare a Genova con il suo porto antico ristrutturato, alla collina
degli Erzelli con la sua ricerca innovativa e a Torino al
Politecnico, dinamico, efficiente e internazionalizzato, alla torre
di Intesa-San Paolo, ad Eataly e al design nel ciclo dell’auto
mondiale. Ma è un “non ancora”, che non assorbe con logiche da
vasi comunicanti ciò che non è più. Come nel Nord Est
post-fordista dell’impresa diffusa e molecolare proliferante con i
suoi capannoni.
Il 09 dicembre ero a Vicenza alla Fondazione Bisazza
dove UniCredit aveva organizzato un forum con le eccellenze
territoriali sulle nuove traiettorie competitive del Nord Est.
C’erano quelli dell’innovazione spinta, Donadon di H-Farm e
Micelli teorico dei makers, imprese come Rana che fanno i tortellini
a reti lunghe negli States, manifatturiere come Staff International
con filiere che vanno dal design all’artigiano ai grandi gruppi,
eccellenze agroalimentari come Lunelli e Sandro Boscaini, sino al
MUSE (Museo della Scienza) di Trento. Un bel insieme di reti lunghe
del produrre per competere nel mondo.
A pochi chilometri il casello
di Montecchio bloccato da quelli a reti corte che rimangono sul
territorio, che non ce la fanno più. Dai piccoli trasportatori in
crisi di commesse dalle fabbrica diffuse, orfani di un mercato locale
e nazionale asfittico, sino al ciclo immobile dell’edilizia. Non se
ne fanno più di capannoni, né ipermercati, né villette a schiera.
Anzi, è problema il riuso di quelli dismessi.
L’ISTAT nel
censimento delle imprese definisce questa nebulosa “imprese
conservatrici”. Sarà bene tenere in conto che sono il 64% delle
imprese italiane, cioè 670mila con oltre 6 milioni di addetti e con
una dimensione media di 8-9 addetti. Se poi guardi a Sud, dove i
forconi erano già apparsi bloccando la Sicilia, riappare la mela
spaccata. Finita l’epoca dei trasferimenti pubblici, ed è proprio
finita, sono pochi quelli che in agricoltura, nel turismo e nella
manifattura affrontano l’avventura del mercato globale. Non a caso
Alessandro Laterza di Confindustria evidenzia i numeri drammatici
della desertificazione: a Sud nei primi nove mesi del 2013 hanno
cessato l’attività 366 imprese al giorno, e il tasso di
disoccupazione giovanile (15-24 anni) è arrivato a sfiorare la
soglia del 47%.
Certo fa più fine occuparsi della classe operai che
resiste attorno alla FIOM di Landini o delle start up dei lavoratori
della conoscenza. Ritengo urgente mettersi in mezzo alla mela
spaccata della composizione sociale, occorrerebbe più società di
mezzo. Ma anche qui la desertificazione del territorio ha lasciato
vuoti nelle rappresentanze dei lavori e delle imprese sia
“conservatrici” che “innovative e ad internazionalizzazione
spinta”, nell’immigrazione dei nuovi cittadini senza
cittadinanza. E si discute da tempo della crisi delle istituzioni
intermedie, dalla Provincia alle Camere di Commercio, alla Regione.
Sino ad arrivare alla crisi di rappresentanza della forma partito e
della politica. Il tutto circondato dal riapparire della povertà,
ove affondano i piedi quelli del non più e appare un’umanità
dolente.
Povertà che non salva né le famiglie dei lavoratori
dipendenti, né quelle da reddito da lavoro autonomo. Le severe
deprivazioni, come le chiama l’Istat, colpiscono il 13,7% dei primi
e il 12,6% dei secondi. Più che puntare il dito dell’interpretazione
ideologica su ciò che sta avvenendo guardiamo alla luna, alla
questione sociale che viene avanti.
Per le rappresentanze e la
politica non è solo un microcosmo di racconto ma un monito urgente a
ricominciare a cercare per ricominciare a capire e continuare,
cambiando, a rappresentare.
(Da Il Sole 24 ore 22 dicembre 2013)
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