martedì 31 dicembre 2013

MICROCOSMI ITALIANI NEL PAESE DEI FORCONI


Aldo Bonomi

Dai territori s’avanza uno strano conflitto. Senza luoghi idealtipici, la fabbrica, il quartiere, senza un mestiere, una professione, una classe egemone. Senza rappresentanze codificate e riconosciute. Molecolare, diffuso. Più da rondò e casello autostradale che da manifestazione tumultuosa che attraversa il centro delle città. A bassa intensità. Se si escludono quelli che vogliono cavalcare la piazza nella logica sterile dei violenti senza popolo, a cui non par vero di vedere un popolo. Ma ad alta intensità interrogante per la crisi della politica e della rappresentanza. Sono i forconi. Io li definisco il popolo del NON PIU. Che non ce la fa più.

So che la parola popolo è una parola impegnativa per definire una moltitudine: la massa priva del sistema ordinatorio delle classi a cui eravamo abituati. Quindi capisco chi si è affrettato sbrigativamente a definirli populismo. Togliendo loro anche la dignità di essere un magma dove ribolle la questione sociale. Il disagio sociale di una crisi che una metafora radicale vede come l’1% di salvati e il 99% di sommersi. O più banalmente l’apparire nel 2013 dei costi sociali di una crisi che nel suo non finire scava nel profondo della composizione sociale e produttiva del paese. 


Vengono più dai “campi” che dalle “officine”, dal territorio. Sono il prodotto della desertificazione di cicli produttivi e sistemi territoriali, il non più, che avevano caratterizzato l’economia della nazione, l’Italietta che ha cercato il suo spazio di posizione nella globalizzazione e di resistere alla crisi. Non sono forse state Torino e Genova l’epicentro della crisi del fordismo? Con i loro buchi neri. 

Dal porto con la crisi della logistica minuta dei padroncini, alla FIAT che sta a Detroit e promette di tornare a Mirafiori. Da qui operai licenziati, cassintegrati, con intorno le piccole imprese dell’indotto in sofferenza. Il tutto è rovinosamente caduto addosso al commercio minuto delle bancarelle, dei mercati rionali, al commercio diffuso, producendo intere strade di negozi fantasma… In più tanti, troppi, giovani senza più futuro. 

Mi si dirà che, a fronte di questo quadro desolante, occorre guardare a Genova con il suo porto antico ristrutturato, alla collina degli Erzelli con la sua ricerca innovativa e a Torino al Politecnico, dinamico, efficiente e internazionalizzato, alla torre di Intesa-San Paolo, ad Eataly e al design nel ciclo dell’auto mondiale. Ma è un “non ancora”, che non assorbe con logiche da vasi comunicanti ciò che non è più. Come nel Nord Est post-fordista dell’impresa diffusa e molecolare proliferante con i suoi capannoni. 

Il 09 dicembre ero a Vicenza alla Fondazione Bisazza dove UniCredit aveva organizzato un forum con le eccellenze territoriali sulle nuove traiettorie competitive del Nord Est. C’erano quelli dell’innovazione spinta, Donadon di H-Farm e Micelli teorico dei makers, imprese come Rana che fanno i tortellini a reti lunghe negli States, manifatturiere come Staff International con filiere che vanno dal design all’artigiano ai grandi gruppi, eccellenze agroalimentari come Lunelli e Sandro Boscaini, sino al MUSE (Museo della Scienza) di Trento. Un bel insieme di reti lunghe del produrre per competere nel mondo.

A pochi chilometri il casello di Montecchio bloccato da quelli a reti corte che rimangono sul territorio, che non ce la fanno più. Dai piccoli trasportatori in crisi di commesse dalle fabbrica diffuse, orfani di un mercato locale e nazionale asfittico, sino al ciclo immobile dell’edilizia. Non se ne fanno più di capannoni, né ipermercati, né villette a schiera. Anzi, è problema il riuso di quelli dismessi. 

L’ISTAT nel censimento delle imprese definisce questa nebulosa “imprese conservatrici”. Sarà bene tenere in conto che sono il 64% delle imprese italiane, cioè 670mila con oltre 6 milioni di addetti e con una dimensione media di 8-9 addetti. Se poi guardi a Sud, dove i forconi erano già apparsi bloccando la Sicilia, riappare la mela spaccata. Finita l’epoca dei trasferimenti pubblici, ed è proprio finita, sono pochi quelli che in agricoltura, nel turismo e nella manifattura affrontano l’avventura del mercato globale. Non a caso Alessandro Laterza di Confindustria evidenzia i numeri drammatici della desertificazione: a Sud nei primi nove mesi del 2013 hanno cessato l’attività 366 imprese al giorno, e il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è arrivato a sfiorare la soglia del 47%. 

Certo fa più fine occuparsi della classe operai che resiste attorno alla FIOM di Landini o delle start up dei lavoratori della conoscenza. Ritengo urgente mettersi in mezzo alla mela spaccata della composizione sociale, occorrerebbe più società di mezzo. Ma anche qui la desertificazione del territorio ha lasciato vuoti nelle rappresentanze dei lavori e delle imprese sia “conservatrici” che “innovative e ad internazionalizzazione spinta”, nell’immigrazione dei nuovi cittadini senza cittadinanza. E si discute da tempo della crisi delle istituzioni intermedie, dalla Provincia alle Camere di Commercio, alla Regione. Sino ad arrivare alla crisi di rappresentanza della forma partito e della politica. Il tutto circondato dal riapparire della povertà, ove affondano i piedi quelli del non più e appare un’umanità dolente. 

Povertà che non salva né le famiglie dei lavoratori dipendenti, né quelle da reddito da lavoro autonomo. Le severe deprivazioni, come le chiama l’Istat, colpiscono il 13,7% dei primi e il 12,6% dei secondi. Più che puntare il dito dell’interpretazione ideologica su ciò che sta avvenendo guardiamo alla luna, alla questione sociale che viene avanti. 

Per le rappresentanze e la politica non è solo un microcosmo di racconto ma un monito urgente a ricominciare a cercare per ricominciare a capire e continuare, cambiando, a rappresentare. 

(Da Il Sole 24 ore 22 dicembre 2013)

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