mercoledì 4 dicembre 2013

OCSE-PISA: PRONTI, PARTENZA, VIA AI QUIZ A VITA

A cosa servono i test Ocse-Pisa? Il livello di «competitività» in matematica, nelle scienze e nella lettura, è sotto la media in Italia. il «Programma di valutazione internazionale degli studenti» rimanda il nostro paese che resta in bassa classifica. La spesa per l’istruzione procapite tagliata dell’8% dal 2001, ma le politiche neoliberali insistono sull’aziendalizzazione della scuola.

Quando in Italia si è iniziato a parlare dei test Pisa qualcuno deve avere pensato all'amata torre pendente, meta turistica nell'omonima città toscana. Nelle scuole dei 65 paesi Ocse non è più così da dieci anni, perché Pisa è il minaccioso acronimo del «Programma di valutazione internazionale degli studenti», il Programme for International Student Assessment. Nella neolingua di chi gestisce le politiche neoliberali dell'istruzione a livello internazionale, questo acronimo allude a uno studio triennale che valuta il livello acquisito dai liceali quindicenni nel campo della matematica, delle scienze e della capacità di lettura e comprensione di un testo. Su questa base vengono redatte le classifiche in base alle quali la governance misura il livello di «performatività» del sistema scolastico nell'economia globale della conoscenza. I test servono a «preparare la vita dei giovani che escono dalla scuola». In futuro serviranno a distribuire le risorse statali decrescenti alle scuole e alle regioni «virtuose» che praticano un'etica imprenditoriale e un modello competitivo dell’esistenza.

Mezza classifica
I dati Ocse presentati sono il risultato della valutazione di 510mila studenti di 65 paesi che hanno compilato i questionari nel 2012. In Italia le prove hanno coinvolto 38.142 studenti di 1186 scuole che hanno affrontato il test di due ore. I risultati medi nei tre settori di riferimento sono inferiori alla media Ocse. Per la matematica l’Italia si colloca tra il 30° e il 35° posto, in lettura tra il 26° e il 34°, in scienze tra il 28° e il 35°. Risultati mediocri che segnano tuttavia un miglioramento di 19 punti in matematica (494 contro i 466 del 2003), di 18 punti in scienze (494 contro 475 nel 2006), tre nella prova di lettura (490 contro i 487 del 2000).

Il miglioramento si è dunque registrato in matematica, in particolare nell'interpretazione dei risultati ma non nella «formulazione di situazioni in modo matematico». Gli studenti che vanno meglio sono quelli di Trento, del Friuli Venezia Giulia e del Veneto, a livello dei paesi migliori in testa alla classifica: Svizzera, Olanda o Finlandia. La Sicilia, invece, occupa una posizione inferiore a quella della Repubblica Slovacca, sempre che questi paragoni tra una regione e uno stato abbiano un senso.

Questa disparità tra il Nord-Est e il Sud si aggrava tra studenti italiani e quelli stranieri. Il punteggio di questi ultimi è inferiore di 48 punti rispetto agli italiani, 34 punti in più rispetto alla media Ocse. Questa differenza viene addebitata alle «disparità di status socioeconomico» e alle barriere linguistiche nell'apprendimento. Sulla matematica, l'Ocse misura anche una frattura di genere tra le «performance» dei ragazzi e quelle delle ragazze (18 punti contro una media di 11). Le studentesse sembrano essere più portate nella lettura: 39 punti in più rispetto ai maschi.

Il «costo» delle bocciature
Al di là dei numeri, e dei campi scelti per «misurare» il «capitale umano» dei singoli studenti, è interessante annotare le cause che sarebbero alla base di tali disparità. E su questo emerge la natura disciplinare della valutazione Pisa, oltre che i suoi intimi convincimenti antropologici. Causa di tutti i mali sarebbe infatti la mancanza di disciplina scolastica. Il 48% degli studenti si è assentato uno o più giorni nell'arco delle due settimane precedenti al test Invalsi. Questa sarebbe la prova della loro «indisciplina» alle regole stabilite a livello internazionale. Per l’Ocse chi non si presenta a lezione «costa» 32 punti. Chi si assenta per più di un giorno fa perdere alla sua scuola 52 punti nella gara per l’«eccellenza». Per non parlare dei bocciati, di cui l'Italia sembra detenere un altro primato: il 17% contro una media del 12%. Chi sono i responsabili che azzoppano il paese nella gara? I ragazzi meridionali (i campani sono i più indisciplinati), gli immigrati, le ragazze. Non rientrano nel ristretto club dei «top performers». Peggio di loro hanno fatto solo i ragazzi argentini, giordani e turchi.

Istruzione=management del personale
L'Ocse registra inoltre un'anomalia tutta italiana. Unico paese su 65, l'Italia ha tagliato 10 miliardi di euro all'anno all'istruzione e alla ricerca pubblica dal 2008 a oggi. Ma la tendenza viene individuata già dal 2001, da quando la spesa per studente dai 6 ai 15 anni è diminuita dell'8%. Peggio hanno fatto solo Islanda e Messico. L'Ocse tuttavia non addebita i risultati mediocri registrati dagli italiani nelle sue classifiche a questi tagli. Come Singapore, ad esempio, l'Italia spende 85 mila dollari a studente, ma ottiene 485 punti in matematica, mentre la virtuosa città-stato ottiene 573 punti. L'«inefficienza» è dovuta all'inesistente «potere decisionale dei dirigenti sulla spesa per il personale». Alla ministra dell'istruzione Carrozza, la quale ritiene che i risultati Pisa devono «essere da stimolo per migliorare le performance dei nostri studenti», l'Ocse suggerisce di continuare nell'aziendalizzazione della scuola magari licenziando i docenti, per migliorare la «produttività» della scuola nei prossimi tre anni. L'unico orizzonte esistente è quello dell'economizzazione dell'educazione  la sua progressiva assimilazione in una rete di procedure disciplinari.

A cosa servono i test?
Chi studia i test, dal punto di vista di una pedagogia critica, ha evidenziato da ormai 20 anni il paradosso della valutazione. Da un lato, l'Ocse e i cultori neoliberali dell'istruzione coltivano gli ideali della cooperazione nella comunità scolastica e una maggiore attribuzione di responsabilità agli studenti. Dall'altro, questi obiettivi devono essere raggiunti attraverso l'imposizione di vincoli esterni, in particolare gli obiettivi di produttività, la certificazione delle competenze, la ricerca di fondi (statali o europei, perché quelli privati latitano) secondo i criteri.

Il paradosso giunge, infine, a un risultato: costruire un manager della conoscenza che auto-gestisce il proprio capitale umano. Può essere uno studente, come un lavoratore autonomo, o dipendente. In generale è il cittadino che è stato formato nell'ultima generazione anche in Italia, nelle aule delle scuole e delle università. Ammesso che abbia mai potuto gestire qualcosa del suo capitale umano, oggi questo "manager" gestisce la sua rendita (competenze, saperi, relazioni, curriculum ecc) in un mondo dove crescono la disoccupazione, il precariato, l'inoccupazione. In questo scenario la valutazione serve ad autogestire la miseria, non la speranza di una ricchezza futura.

Roberto Ciccarelli







2 commenti:

  1. Bell'articolo, complimenti, lettura interessante della notizia in questione

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  2. Ancora competizione, insomma. Non che nella scuola sia una novità ma questa enfasi quasi agonistica con tanto di podio e di misurazioni mi sembra che svilisca la cultura

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