martedì 14 gennaio 2014

«#FREELANCESI, #COGLIONENO»

C’è una guerra tra il committente e il freelance. In un rapporto di lavoro il primo è il «cliente», il secondo è un «fornitore». Il committente parla con accento milanese, romanesco o con un inflessione umbro-marchigiana. Più che «giovani», anche i secondi sembrano ultra-trentenni. Prestano la loro opera da giardinere, antennista o idraulico. Rispondono al telefono o alle mail ad ogni ora, sette giorni su sette. Anche la domenica mattina all’alba. È la dannazione degli smartphone: 24h su 24 connessi. Ogni intervento, si paga. Più interventi fai, più dovresti staccare una fattura. Dovrebbe essere cosi. Ma non è così. Sono passati i tempi in cui un idraulico, mettiamo, si faceva pagare molto caro ogni intervento. E non parliamo di un «creativo», grafico o videomaker, giornalista architetto o attore, lavoratori dell’«immateriale». Sono tutti «conto-terzisti» che lavorano a chiamata. Sono precari. Sono Quinto Stato.


Questi «creativi» che lavorano (o vengono trattati come) idraulici, antennisti o giardinieri sono i protagonisti della campagna «#freelanceSi, #coglioneNo» che impazza in rete da ieri.



È composta da tre spot e chiede «il rispetto del lavoro creativo». Mette in scena, in maniera efficace e divertente, un ritornello ben noto alle partite Iva, agli stagisti, ai tirocinanti: «Te lo dico onestamente. In questo progetto non c'è budget. Sei giovane, hai fatto esperienza, ti sei fatto un curriculum. E poi te lo metti...nel portfolio». Dice invece il tenutario di una villa ad un giardiniere a domicilio: «Scusa, te che vo' fa' nella vita? Il giardiniere, il sogno tuo no? Nella vita per realizza' i sogni c'è bisogno de fa' sacrifici. E poi te diverti no? E allora arrampicate su un'albero, gioca con una siepe. Stacce tutto er giorno, me raccomanno». «Ti offro una grande occasione di visibilità – dice un «creativo» che smanetta sul suo iphone ad un idraulico - mi faccio una foto mentre sto cacando e poi la metto su facebook, su twitter e pinterest. E poi ti taggo».



«Ti sembra una frase da stronzo? - recita la didascalia alla fine degli spot – A un freelance lo dicono sempre». La campagna è stata realizzata dai videomaker Stefano De Marco, Niccolò Falsetti e Alessandro Grespan, animatori della pagina facebook «Zero» e impegnati nella produzione di un documentario sugli universitari europei «Erasmus 24_7». Il protagonista è Luca Di Giovanni, attore «altruista» che ha lavorato da volontario. Dai commenti in rete qualcuno ha fatto notare che negli spot manca un riferimento alle donne. I protagonisti sono infatti tutti uomini e ciò non rispetta pienamente la composizione di genere del lavoro indipendente in Italia.



La condizione di freelance (lavoratore creativo, della conoscenza o dei servizi) sembra essere inoltre schiacciata su quella generazionale. Oggi, invece, la vulnerabilità e l'assenza dei diritti rispetto ad un committente non riguarda solo i «giovani» trentenni ma una fascia d’età dai 20 ai 60 anni. Chi fa un lavoro «immateriale» chiede il riconoscimento di uno status professionale o il diritto ad un equo compenso, come gli archeologi o i giornalisti freelance, non vive diversamente da chi, ad esempio avvia un’auto-impresa o lavora nella logistica.

Ad una seconda visione degli spot, viene da pensare che i committenti subiscano le angherie e il disprezzo a cui hanno sottoposto i loro fornitori. Anche loro avranno un datore di lavoro in un’economia postfordista. Ciò che li salva è la rendita o la speranza di non essere schiavi al servizio di altri. Su questa illusione si regge oggi un intero paese.



Anche in questo video di S. Bencivelli, N. Russo, C. Tarfano emerge la consapevolezza del ruolo, e della dignità, del lavoro indipendente. E' un lavoro, dev'essere pagato, non si vive d'aria. L'ironia amara del video è il rovesciamento del paternalismo nella famosa scena morettiana: "faccio cose, vedo gente".



Oggi emerge la consapevolezza che questo "fare e vedere" è un produrre e che a questo produrre dev'essere riconosciuto un diritto e un'adeguata retribuzione. Queste rivendicazioni sono state riassunte in questa petizione che chiede il "riconoscimento della valenza strategica della creatività". Ha raccolto, al momento, 11 mila firme online. Sono tutti sintomi di un salto nell'auto-percezione da parte del lavoro immateriale nel nostro paese (della conoscenza, creativo, culturale ecc.): non abbiamo una "rappresentanza politica, mediatica, sindacale". E' dunque giunto il momento di conquistarla.

Ma c'è anche un altro elemento, forse ancora più decisivo, che emerge. Lo ha mostrato con la consueta sensibilità, Sergio Bologna: il rapporto tra il lavoro intellettuale e il volontariato. La retribuzione e il giusto salario, infatti, non riusciranno mai a ricompensare l'aspetto costituente di questo lavoro: il donare, l'essere esposti, il volontario e gratuito:

Il lavoro intellettuale retribuito è cessione a titolo oneroso di competenze, non è lavoro di conoscenza, tant’è vero che dopo avere fornito servizi competenti non ci sentiamo per niente arricchiti del nostro bagaglio di conoscenze. Abbiamo arricchito il nostro savoir faire, è una cosa diversa, ci siamo meglio attrezzati per erogare lo stesso servizio con minore sforzo, così come l’operaio dopo avere ripetuto lo stesso movimento per cento volte impara a farlo in modo da strappare del tempo per una sigaretta a parità di output. Ma questa situazione che è tipica dello skill non rientra nella sfera del lavoro di conoscenza che per sua natura è un lavoro extramercato, svincolato da un prodotto specifico o anche dal “produrre”, è molto più legato all’”inventare”, all’”innovare”, a rompere gli schemi, a “liberare” e a liberarci. Conoscenza e libertà sono due termini inscindibili, che si possono esprimere anche con una sola espressione “libertà di pensiero”, qualcosa che rimanda all’infinito.

Ciò che dunque dovrebbe essere tutelato, e queste campagne video forse ne sono l'esemplificazione, non è tanto - o non solo - il prodotto in sé, bensì l'attitudine, la condotta, la forma di vita che porta all'innovazione e alla rottura degli schemi. Al di là dell'analisi sociologica, e delle richieste salariali o professionali, è questo l'aspetto anomalo della conoscenza che inquieta tanto chi ci lavora quanto la società che dovrebbe riconoscerle.


Roberto Ciccarelli

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