mercoledì 7 maggio 2014

SOGNO EUROPEO O INCUBO?



 Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini 

hanno pubblicato un nuovo libro: Sogno europeo o incubo?(Fazi editore,  pp. 175, 10 €) e si chiedono come l'Europa potrà tornare a essere democratica, solidale e capace di difendersi dai mercati finanziari . Qui anche un'anticipazione "cartacea"

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We believe in Europe because we are all Europeans
Moritz Hartmann, Floris de Witte

Dieci anni fa l’Europa appariva già profondamente divisa. In un celebre intervento pubblicato contemporaneamente su alcuni grandi quotidiani europei, a partire da «Libération» e «Frankfurter Allgemeine Zeitung» (quindi «La Repubblica» del 4 giugno 2003), Jürgen Habermas e Jacques Derrida ricordavano i due momenti cruciali della frattura di allora. L’adesione di tanti governi europei alla “coalizione dei volonterosi” a sostegno dell’aggressione USA all’Iraq, ma anche le oceaniche manifestazioni di protesta contro la guerra, tenutesi il 15 Febbraio 2003 in tutte le capitali del vecchio continente, segnale della nascita di “un’opinione pubblica europea” e – per il «New York Times» – di una seconda superpotenza planetaria.


Davanti alla plateale “spaccatura” del fronte europeo e alla rottura di ogni patto d’azione comune, la proposta avanzata dai due filosofi era piuttosto ingegnosa: finiva con il delineare una sorta di inedita alleanza tra intellighenzia europeista di orientamento democratico e pacifista, movimenti di protesta, governi che avevano scelto di essere fedeli ai “valori” fondanti il processo di integrazione – come la cooperazione e il negoziato in quanto metodo di “governo al di là dello stato nazionale” – per rilanciare con determinazione il “progetto europeo” e le ipotesi di “costituzionalizzazione“ dell’Unione elaborate dalla seconda “Convenzione sul futuro dell'Europa”. Mirava a contaminare, più o meno apertamente, la rivolta “dal basso” con le azioni illuminate di Francia e Germania, che avevano opposto il loro storico niet all’invasione dell’Iraq nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, e la faticosa riscrittura di nuove regole del gioco “comunitario” nei palazzi di Bruxelles.

Una prospettiva sostenuta da un ethos democratico-radicale e solidaristico che dipingeva l’Unione come l’erede necessaria della Rivoluzione francese e dei “movimenti dei lavoratori e delle tradizioni cristiano sociali”, delle lotte per una “maggiore giustizia sociale”. Ancora, si sollecitava “l’Europa avanguardista del nocciolo duro” a fare da locomotiva nel contrasto all’unilateralismo egemonico degli USA cercando di trascinare tutti gli Stati UE nel vortice dell’adesione a una “politica estera comune”. Democratici e ribelli aux armes, potremmo dire; contro la retorica dei piccoli passi e le immagini di una costruzione lineare, cumulativa e, alla fine, impolitica, di una res-publica europea.

Dopo circa dieci anni almeno quella linea di divisione sembra assorbita, se non altro perché nessuno si aspetta più una presenza determinante e unitaria dei paesi europei sullo scacchiere internazionale: il sottrarsi della Germania alle operazioni militari contro la Libia (promosse invece da Francia e Gran Bretagna) non ha generato reazioni nemmeno lontanamente comparabili a quelle del 2003, quando la cosiddetta “Old Europe” oppose il suo rifiuto. Gli storici conservatori delle grandi università americane e inglesi come Charles Kupchan e Niall Ferguson si limitano a registrarlo come uno dei tanti segnali malinconici di decadenza dell’Occidente. Tuttavia nuove e potenzialmente devastanti faglie divisorie si sono aperte nella costellazione post-nazionale dell’Unione, innescate dalla crisi economica internazionale e – come noto – dalla sua declinazione europea come crisi del debito sovrano. Questa si è convertita a sua volta – complici le ingiuste e controproducenti politiche di austerity – in una drammatica emergenza sociale per i Paesi che gli industriali del Nord-Europa sono soliti definire sarcasticamente “dell’area dell’olio d’oliva”.

I molteplici e convergenti aspetti di questa impasse – che indagheremo più avanti – compongono nel loro complesso, per dirla con Edgar Morin, il quadro di “una crisi esistenziale” dell’Europa. Un vero e proprio smarrimento del senso e del significato del processo d’integrazione, che ha reso concreta l’ipotesi del “matricidio”, ovvero l’esclusione della Grecia dalla zona euro, e che finisce con l’annullare o rendere poco significativi anche quei passi che si sono riusciti a compiere nella stabilizzazione dell’euro di fronte all’attacco speculativo dei mercati. Persa la fiducia nella politica dei piccoli passi incrementali, mancando un qualche accordo sul telos di questo movimento graduale, le riforme compiute sembrano sempre di più occasioni mancate, inadeguate, come inevitabilmente appaiono, a dissolvere il pericolo di una implosione dell’architettura comunitaria (o quanto meno di quella dell’Eurozona).

L’Unione sembra fedelmente recitare un copione già anticipato in due articoli scritti nel 2011, in relazione al “caso Grecia”, dal premio Nobel per l’economia Paul Krugman. Nel primo, uscito sul «New York Times» dell’11 gennaio 2011 (pubblicato poi in italiano dalla rivista «Internazionale») titolato “Can Europe be saved?” l’insigne economista liberal si lanciava in una appassionata difesa del “modello sociale europeo” e delle speranze federaliste coltivate negli oltre cinquant’anni successivi al Trattato di Roma, attraverso le politiche d’integrazione economica e funzionale. Di fronte all’esplosione della crisi economica internazionale, certamente causata da mani americane, l’Unione è stata all’inizio molto più pronta e reattiva grazie alle scelte occupazionali e garantiste compiute dalla gran parte degli Stati membri, ma condivise dagli organi di Bruxelles. Nel campo del diritto del lavoro si è vietato il licenziamento ingiustificato e a livello di Welfare si è optato per l’attribuzione, almeno ai soggetti a rischio di esclusione sociale, di un reddito minimo garantito.

Nel primo anno della crisi, nell’Ue non si sono verificate, anche grazie a tali politiche interne, le laceranti conseguenze sociali registratesi negli USA, afflitti da milioni di senzatetto privati persino della copertura sanitaria. Tuttavia, nel tempo, la crisi ha portato alla luce un gravissimo problema di coesione e di solidarietà all’interno dell’inedito ordinamento sovra-nazionale, poiché la costruzione dell’euro è rimasta incompiuta e monca: senza gli essenziali meccanismi di elaborazione di una comune politica fiscale, economica e sociale, l’euro finisce con lo scatenare una guerra endo-europea distruttiva per i paesi più deboli, che non vengono aiutati a stare al passo dei più forti. L’esempio dell’ipotetico fallimento dello Stato del Nevada e quanto è accaduto alla Grecia illuminano la differenza tra un regime federale e una situazione ancora incerta di mera “sovra-nazionalità”. Krugman non esitava quindi nel prescrivere una vigorosa “cura” federalista.

Per l’Unione si tratta di completare il processo iniziato con la Dichiarazione Schumann che “fece imboccare all’Europa la strada dell’unità. Finora questo cammino, anche se lentamente, ha sempre seguito la strada giusta. Ma le cose cambieranno se il progetto dell’euro fallirà”. A distanza di quasi un anno, il nuovo intervento di Paul Krugman, pubblicato sul «New York Times» l’11 dicembre 2011 con il titolo “Depression and democracy”, sembra provenire da un’altra penna: «Prima di tutto la crisi dell’euro sta uccidendo il sogno europeo. La moneta comune, che avrebbe dovuto stringere il legame tra le nazioni, ha invece creato un clima di amara ostilità». Krugman vede ora solo politiche recessive che avvitano gli Stati europei in un destino di disoccupazione e privazioni capace di destabilizzare i regimi politici, soprattutto quelli più fragili come l’Ungheria, nella quale si sta rafforzando senza grandi contrasti un partito xenofobo di estrema destra, aiutato dall’ansia che monta di fronte a un’Unione che chiede solo austerity e sacrifici.

I leader europei dovrebbero ripensare con urgenza le loro fallimentari politiche economiche e la loro fiducia apparentemente incondizionata nella tenuta democratica del Continente (senza confidare troppo sul fatto che non ci sono nuovi Hitler all’orizzonte). Si tratta di un’emergenza assoluta rispetto alla quale lo stesso venir meno della moneta unica appare secondario. L’analisi, come si vede, si tinge di nero, ora l’Europa è dipinta come quel male radicale che gli USA devono cercare di evitare, archiviata ormai l’idea del rilancio del progetto federale di Spinelli o Schuman. Innumerevoli articoli successivi sono poi tornati sull’argomento, stigmatizzando con espressioni sempre più nette e vivaci l’ottusità delle élites del vecchio Continente e infine direttamente la Cancelliera Merkel. Ben presto si è creato un vero e proprio coro di critiche da parte di una vasta cerchia di economisti progressisti e neo-keynesiani per i quali le misure di austerity sono un rimedio peggiore del male che combattono (nel senso che finiscono con l’aggravarlo, come ormai acclarato anche da studi delle Istituzioni internazionali): dal Premio Nobel Joseph Stiglitz a Jean Paul Fitoussi sino a un altro Premio Nobel, Amartya Sen, promotore del “Gruppo Spinelli” presso il Parlamento europeo.

Nel primo capitolo cercheremo quindi di ricostruire il progressivo emergere di una crisi di legittimazione delle istituzioni dell’Unione determinata dal sorgere di un “diritto europeo dell’emergenza”, approvato in tutta fretta nei fine settimana, prima dell’apertura delle borse, per domare le speculazioni finanziarie e monetarie. Questo diritto emergenziale europeo tende a spogliarsi, come di una “pelle di leopardo”, dei paradigmi e delle procedure proprie del diritto “comunitario”, aggravando così in modo drammatico il mai risolto deficit democratico dell’Unione.

Il secondo capitolo ricostruirà la “frattura sociale” dell’Unione, quel declino del “modello sociale europeo” che lo stesso Mario Draghi ha avuto il coraggio di ricordare, con lo stemperarsi progressivo di tutte le strategie individuate al volgere del millennio per la sua affermazione.

Il terzo capitolo presenta un quadro delle recenti proposte in campo per superare la crisi istituzionale (per alcune di queste, anche quella sociale ed economica), provenienti da ambienti istituzionali e politici: Commissione, Parlamento europeo, Gruppo Spinelli, il Governo tedesco e quello francese.

Il quarto capitolo cercherà di ricostruire le posizioni “teoriche” in campo. L’aggravarsi dell’impasse dell’Unione ha aperto un contrasto sull'Europa, quell'Europa-Streit che ha coinvolto Jürgen Habermas e Wolfgang Streeck e che rimette in discussione il futuro dell’Unione. Un dibattito apparentemente archiviato con la ratifica e l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e ricondotto su binari più pragmatici, come quelli relativi all’implementazione del Trattato, i suoi limiti e le sue potenzialità.

Nell’ultimo capitolo esporremo alcune, benché sommarie e provvisorie, conclusioni tenendo in vista il rilancio di un processo costituente per l'Europa politica e sociale. Appare chiaro che l'ancora affascinante e accattivante proposta di rilancio del “progetto europeo” formulata da Habermas e Derrida nel 2003 – nel suo cercare di coniugare la mobilitazione dal basso con scelte di ordine “costituzionale” capaci di far evolvere le istituzioni europee in senso democratico e sociale – incontra nuove e inedite difficoltà, ma anche opportunità ed occasioni allora non prevedibili, che costituiscono quella che viene generalmente definita da Antonio Negri e altri come “la dimensione costituente della crisi”.

Una bibliografia essenziale indicherà i più interessanti volumi usciti nell’ultimo periodo sulla “questione europea”.

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