Illustrazione di +Sandro Moretti |
Roberto Ciccarelli
Renzi è stato bloccato. Non dalla Cgil che ha portato un milione di persone in piazza nella manifestazione o l’inutile sciopero generale contro il Jobs Act. Ci sono riusciti i freelance e le partite Iva con twitter. Una situazione inconcepibile per chi ragiona con la mentalità tradizionale della politica. Che cosa è accaduto? Il racconto e l'analisi su Euronomade.
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Basta
un tweet storm per fermare una riforma. È il risultato inedito in Italia della
mobilitazione online organizzata dalle associazioni del lavoro autonomo e dei
freelance Acta, Alta Partecipazione e Confassociazioni che, per il momento,
hanno neutralizzato la grave riforma del regime fiscale agevolato per le
partite Iva under 35 imposta dal governo Renzi nella legge di stabilità. Una
decisione smentita già sei ore dopo la sua approvazione dal presidente del
Consiglio che ha detto di avere fatto un errore (“autogol” nel gergo falso-pop
dei ceti dominanti). Questo dettaglio è importante per comprendere il lato
debole della politica dell'austerità oggi.
Per
la prima volta, in un anno di governo, Renzi ha ammesso di avere sbagliato. Non
c'è riuscito il milione che la Cgil ha portato in piazza nella manifestazione
di Roma il 25 ottobre 2014 o l'inutile sciopero generale contro il Jobs Act
fatto una settimana dopo l'approvazione in Senato della legge delega il 3
dicembre 2014. Ci sono riusciti, invece, poche migliaia di persone hanno
colpito ripetutamente l'account twitter del presidente del Consiglio per
quattro mesi e lui – che ha sempre quel cellulare in mano anche nelle
conferenza stampa con altri capi di stato – ha speso del tempo a leggere questi
tweet. E da solo, nella camera buia della sua coscienza, ha compreso l'errore
che poi ha confessato anche in Tv. Monti, o Letta, per non
parlare di Berlusconi, non l'avrebbero mai fatto. La “rottamazione” ha portato
una novità nel cuore dello Stato: al di là di chi realmente è Renzi, c'è
qualcuno che sente di far riferimento ad una dimensione sociale del quinto
stato. Si tratta di un dato politico non irrilevante.
Immagine di @MaxVincio |
L'organizzazione
delle manifestazioni della Cgil avrà avuto un costo molto alto, sia per il
sindacato che i lavoratori che hanno fatto sciopero. Quella dei freelance è
costata solo qualche ora di tempo per organizzarsi sulle mailing list.
Spontaneamente, qualcuno ha preso qualche ora al sonno per creare immagini,
programmare i suoi tweet con programmi specifici, rubando qualche minuto alla
sua pausa pranzo. L'obiettivo di questa protesta è intervenire sulla psiche di
Renzi che intrattiene con i social network un rapporto ossessivo, come del resto
tutti coloro che possono permettersi l'acquisto di uno smart phone, e hanno una
carta di credito per scaricare le app.
Questa
situazione è inconcepibile, almeno per chi ragiona con la mentalità
otto-novecentesca dell'organizzazione. Renzi è stato messo all'angolo da una
mobilitazione che ha influito psicologicamente e politicamente su un dato: ha
tradito la costituency della suo governo 2.0 che parla di twitter, di
innovazione, start up e tutto il corredo del riformatore giovane improvvisato
ma poi triplica le tasse a chi dovrebbe creare innovazione e promuovere queste
start up. La contraddizione è sembrata enorme anche agli occhi del presidente
del Consiglio che infatti è tornato indietro sulle sue decisioni.
Niente
tuttavia è risolto. Al pasticcio che ha creato con le sue mani, Renzi ha
trovato una soluzione improvvisata. Ha mantenuto per le “giovani” partite Iva
un doppio regime fiscale: quello vecchio dei minimi e quello nuovo che le
massacra. Stessa storia per la previdenza: l'aumento dell'aliquota della
gestione separata dal 27,72% al 30,72% (sarà al 33,72% nel 2018) è stato solo
bloccato. Per il terzo anno consecutivo. L'iniquità fiscale e previdenziale
resta sempre la stessa. L'esecutivo ha promesso un intervento organico. È
dunque possibile che peggiori, e di molto, la situazione, considerate le
capacità “riformiste” e le effettive capacità tecniche dimostrate dai governi
dell'austerità in Italia. Anche quando hanno le migliori intenzioni, riescono
inevitabilmente a peggiorare le norme che hanno concepito. Per il momento non
c'è alcuna soluzione in vista e le associazioni del lavoro autonomo chiedono un
ripensamento globale del welfare e del diritto del lavoro.
Immagine di @MaxVincio |
Qualcosa
esiste tra noi
E'
difficile che questo fatto possa ripetersi. Almeno in questa forma. Ma dovrebbe
servire da ammonimento per chi pensa che basta un tweet per vincere una partita
politica che evidentemente è più grande di una protesta online. Anche per
questa ragione è straordinario quello che è accaduto e offre materia per una seria
riflessione. Abbiamo osservato uno degli aspetti che gli indignados spagnoli, e
i loro movimenti, hanno chiamato “tecnopolitica”. Basta un account twitter per
arrestare una decisione, ma soprattutto per segnalare un cambio di indirizzo o
mentalità in chi detiene il potere. Poi serve l'organizzazione, e la sua
strutturazione, per fare emergere ciò che più conta nella politica: il corpo,
le relazioni, la creazione di un'intelligenza comune nell'incontro.
Ma
per fare un discorso di senso compiuto su questo tema molto importante bisogna
sgomberare il campo. Quello che sta emergendo non è semplicemente un nuovo
“sindacalismo”. E non è nemmeno il risultato di una mobilitazione individuale
che trova argomenti comuni casualmente sui social network. I singoli, invece,
sentono di condividere una condizione comune con altri anonimi. E si
riconoscono rilanciando i tweet e, addirittura, producendo immagini, senso
comune, post, ragionamenti. Si incontrano nei cowork in tutta Italia, com'è
accaduto nella mobilitazione con l'hashtag #siamorotti, e improvvisano
flash-mob che riprendono e rilanciano sui social network.
Sono
modellini comportamentali che attestano l'esistenza di un patrimonio di lotte,
di argomentazioni, di saperi tecnici che si sono accumulati nell'ultimo
decennio. Su scala infinitesimale si è formato un habitus che supera le
idiosincrasie individuali, le appartenenze professionali e gli status, trovando
nella misura di 140 caratteri un minimo denominatore comune. Nel tempo
dell'atomizzazione sociale, e della fluidità e dell'individualismo, questi
elementi non dovrebbero essere liquidati con un'alzata di spalle. Sono piccole,
piccolissime cose, ma che possono incrinare la forma di vita dominanti. Oggi
trovare un'ora di tempo per usare twitter insieme ad altri non è scontato. Il
problema, come sempre, è che poi si torna nell'abitacolo della macchina che ti
porta lontano nel viaggio solitario verso l'alienazione totale. Ciò che
tuttavia è importante è avere trovato qualcosa da fare in un momento in cui tutto
dice che, insieme ad altri, non c'è nulla da fare e non esiste nulla in
comune.
È
bastata questa intuizione, in fondo innocua, a raggiungere un risultato
parziale – ma un risultato – a differenza della Cgil che ha mobilitato
milioni di persone in carne e ossa senza impedire che il Jobs Act fosse
approvato. Viviamo in un tempo dove l'infinitamente piccolo, fluido, non
corporativo riesce a conquistare qualcosa che per l'infinitamente grande,
pesante, strutturato è un'illusione. Questa sproporzione sembra incredibile, ma
è degna di essere pensata.
Su una cosa Renzi però ha ragione. Quella della Cgil è una
retorica sul lavoro dipendente, e la sua aspirazione a tutelare il lavoro non
dipendente è poco credibile, vista la storia recente. Non che sia infondato il
suo slancio a tutelare tutto il lavoro, anzi. Il problema è la fiducia nel suo
universalismo. Siamo arrivati al punto che se la Cgil dice: vogliamo proteggere
il lavoro, pochi le credono. In un capitalismo dove tutto è basato sulla
reputazione, al sindacato manca esattamente la reputazione, la credibilità, la
fiducia. Questo è il segno della sua crisi. Che è organizzativa, ma anche di
senso. Oggi più che mai abbiamo bisogno di nuove forme di auto-organizzazione
politica e sindacale, contro questo capitalismo, contro questo zombie
dell'Unione Europa austeritaria. Quello di cui non abbiamo bisogno è questo sindacato.
Immagine di @MaxVincio |
Una rivoluzione culturale
Apparentemente
l'aumento dell'aliquota della gestione separata dell'Inps per i lavoratori
autonomi è un problema molto tecnico. Questo problema è tuttavia diventato
piuttosto popolare a tal punto da esemplificare addirittura la condizione di
tutto il lavoro autonomo in Italia. Questa è la straordinaria dimostrazione che
un problema oscuro, che in realtà riguarda una porzione minima di lavoratori
autonomi, può diventare il simbolo di un problema ben più ampio: quello del
welfare, delle tutele e della pensione per chi non ha un lavoro dipendente.
Se
ripercorriamo la storia delle rivendicazioni del lavoro, non è certo la prima
volta che questo accade. Oggi i problemi del fisco, come quelli della
previdenza, o del reddito sono senz'altro i più sentiti. Ma nella
rappresentazione del lavoro in Tv di cosa si parla? Il fisco è solo quello dei
piccoli imprenditori taglieggiati da Equitalia. O il lavoro è solo quello
salariato di chi lo ha perso o è in cassa integrazione. Sono problemi reali, ma
ce ne sono tanti altri. E manca, soprattutto, una rappresentazione generale del
lavoro che non sia quella pauperistica, vittimistica, fondamentalmente
degradata del lavoro salariato o dell'impresa. Cioè i due principali referenti
della mentalità creata in un capitalismo povero, e arretrato, come quello
italiano.
Il
successo dell'intelligente campagna condotta da anni dall'associazione dei freelance Acta
sulla gestione separata è dunque una risorsa per il futuro. Acta fa riferimento
al settore del terziario e dimostra che nel nostro paese esiste una generazione
di nuovi lavori, e che il lavoro autonomo non è fatto né da evasori fiscali
(vecchia credenza della sinistra), non è paragonabile né all'artigianato né al
commercio, ma è “di seconda generazione” secondo la definizione che ne ha dato
già venti anni fa Sergio Bologna.
Nel
maggio 2011 con Acta organizzammo una grande assemblea al Macro di Roma.
Lavorando su questo tema, facendo inchiesta, scrivendo libri, ho intuito che
Acta parla di una condizione generale del lavoro, e non solo di quella della
conoscenza. Del resto sono stati loro a riusare il concetto di Quinto Stato
parlando del lavoro autonomo di seconda generazione. Attraverso Acta ho
conosciuto, e intervistato, Sarah Horowitz, la fondatrice del sindacato
americano dei freelance più grande del mondo, la Freelancers Union. Acta è gemellata
con questa organizzazione straordinaria.
Nell'intervista
che le feci Sarah fece un ragionamento che ha segnato la nostra intera ricerca
negli anni successivi. Il lavoro indipendente è la definizione per chi lavora da autonomo, a termine, a contratto, a giornata, a
chiamata o part-time. Non si parla più di
“precariato”, ma di “lavoro indipendente”. Una nozione, del resto, confermata
anche da un concetto simile usato nella sociologia del lavoro autonomo in
Italia. Quando
parliamo di quinto stato usiamo in termini estensivi, e
in senso più materialistico, questa analisi della composizione sociale del
lavoro indipendente.
Nell'accezione
della Freelancers Union essa viene usata in maniera più estensiva e, a mio
parere, più corretta. Dato che però lavoro
indipendente, anche dal punto di vista giuridico, definisce la sfera cangiante
del lavoro autonomo, allora abbiamo provato a fare una genealogia del quinto
stato, ritrovando le stesse ragioni della Freelancers Union. Da allora usiamo
la nozione del quinto stato come nuova immagine complessiva del lavoro. Un
lavoro ripreso da Aldo Bonomi con il quale condividiamo con Giuseppe Allegri un
confronto. In questa cornice, mi sembra che la battaglia sulla gestione
separata di Acta sia stato il primo passo di una rivoluzione culturale, e
linguistica, che dovrà ancora fare un lungo tragitto.
Senza voce
Ciò
che sento mancare ancora a livello diffuso non è solo una rappresentazione
generale della nuova condizione. Esiste un'enorme carenza di fiducia in se
stessi e nella propria capacità di auto-organizzazione. Esiste una disillusione
che impedisce di coniugare il grande livello di competenze diffuse con
un'analoga riflessione sulla politica. Questa sfiducia può essere addirittura superiore
di quella che oggi sommerge le istituzioni.
La
rimozione di una coscienza di sé è tanto più estesa quanto più è forte la
capacità di neutralizzazione della politica populista. Questo è anche il
risultato di una specifica configurazione della cultura professionale
ottocentesca di cui siamo eredi. Tale cultura impone al professionista di non
considerare la propria condizione materiale. Troppe questioni tecniche,
sindacali, del “lavoro” inutili. Il professionista deve invece competere sul
mercato, stare in società, non pensare a questi “dettagli”. Non è raro
incontrare oggi avvocati o giornalisti che vivono come proletari ma non
conoscono nulla delle ragioni che li hanno ridotti in questo stato. In grande,
questa rimozione è la stessa che impedisce ai cittadini di partire da sé e
capire che le cose da cambiare sono quelle vicine, e non solo quelle che stanno
in alto. O che vedono in Tv.
Chi
riesce a cambiare sguardo scopre la politica. Cioè il fatto che le proprie
argomentazioni, più che ragionevoli in realtà, non vengono ascoltate da
nessuno. E che, anzi, non vengono trattate nemmeno come argomenti razionali.
Qui nasce la recriminazione, il vittimismo, la solitudine. Invece di
considerare i propri argomenti come lo strumento per costruire una rivendicazione
comune, spesso queste competenze rimangono rimosse o affidate ai canali delle
rappresentanze tradizionali che – per loro costituzione – le neutralizzano,
facendole scomparire.
È il
problema classico dei “senza voce” o dei “senza parte” di cui parla il filosofo
francese Jacques Rancière. Questo ragionamento è stato fatto per le “classi
popolari” o quella “operaia”. Il cortocircuito attuale è dovuto al fatto che
questo avviene a tutti i livelli della società, nel “mezzo” del “ceto medio”, e
non solo nel “basso” di quelle “popolari” appunto. L'analisi politica, e quella
critica, dovrebbe innovarsi e dotarsi degli strumenti per riconoscere quello
che sta accadendo. Anche su questo livello scontiamo un ritardo gigantesco che
non aiuta nemmeno i soggetti implicati in questa situazione a maturare la
consapevolezza necessaria alle loro argomentazioni. Che non sono solo
“professionali” ma che hanno una valenza senz'altro più generale
Il fatto che non basti alla Cgil dichiararsi (e lavorare) per il blocco dell'aliquota per evitare di farsi buttare fango addosso da certi grandi intellettuali toglie forza a chi in Cgil lotta per questi temi. Come si dice a Roma, piagne er morto e fregá er vivo. Complimenti
RispondiEliminachi si batte dentro cgil su questi temi ha avuto e avrà il sostegno di chi è in questa condizione. Si attende che la Cgil si accorga di questo lavoro e lo valorizzi. auguri
EliminaSull'aliquota siamo riusciti a far diventare la posizione del blocco quella della CGIL. Nella piattaforma del 25 ottobre e del 12 dicembre c'erano rivendicazioni anche per professionisti e non dipendenti.
RispondiEliminaMa come sempre non basta, e non ve ne è fregato nulla. Ma è ovvio che fare gli autonomi (stavolta parlo di sindacati, non lavoratori) è molto più facile. E quindi la Cgil era, è e sarà il male, in saecula saeculorum. Auguri anche a te.
Che cos'è ti abbiamo toccato il sancta sanctorum, il deposito dei diritti, l'immemorale tomba da rispettare e tramandare? No guarda non funziona. Quando avete fatto qualcosina per gli autononi vi è stato riconosciuto, anche quando ci avete messo anni. se non lo sai documentati.Se cointinui a ignorarlo, fatti tuoi. Poi, in generale, questo sforzo di passare come difensori del lavoro indipendente è scarsamente credibile. Lo fanno alcuni comparti, non il sindacato (che non ha nemmeno ben chiaro la trasformazione culturale e sociale intervenuta nel frattempo). Bene. Da qui poi a cancellare vent'anni di disconoscimento, e di vuoto culturale, ce ne passa, su lavoro autonomo, precariato e affini. Essere chiari e onesti può giovare, anche per costruire una proposta complessiva con altri, e in coalizione, visto che nessuno è autosufficiente, manco la cgil.
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