martedì 10 novembre 2015

TUTTI I BIANCIARDI DI DOMANI

Roberto Ciccarelli

Quando il lavoro culturale produrrà un reddito. Utopia concreta a partire dalle strategie di condivisione, collaborazione, sharing economy. Dall'editoria e oltre.

*** Pubblicato su Alfabeta2***


Esercizio di immaginazione: il lavoro culturale genera comunità operose. E si organizza in una o più cooperative di mestieri, prodotti, servizi, relazioni che crea una democrazia integrale al suo interno, realizza una critica vivente di ciò che sono oggi le cooperative di lavoro: gerarchiche, a dispetto dello statuto orizzontale; simulatrici di democrazia nei loro organi statutari e non creatrici di relazioni, progetti, interazioni reali.

Mi è stato chiesto di parlare Doc(k)s, una cooperativa di servizi, editoriale, sperimentazione teorica. Ho aderito sin dalla sua nascita e oggi la immagino come una banchina dove le navi senza meta trovano l’approdo. Come un rifugio dal mare in tempesta dove sbarcano comunità spaesate, apolidi sperduti che trovano ristoro e il lontano ricordo di casa. Così intesa una cooperativa che ha l’ambizione di garantire l’indipendenza può diventare una rete di reti autogenerata: editoria, lavoro della conoscenza, cooperazione, servizi e progetti culturali.

L’uso della condivisione

Doc(k)s, come noi che lavoriamo più o meno precariamente nella fabbrica dei segni, oggi si ritrova nell’economia della condivisione. È inevitabile che lo sia se parli di editoria, servizi, organizzi festival o fiere. Per lavorare devi riflettere sul lavoro culturale, immaginare un’alternativa al mercato e alla sua bulimia assassina. Oggi la chiamano: innovazione digitale sociale. È il progetto che ibrida il capitalismo «etico» delle buone pratiche con i nuovi modi di organizzare la democrazia, i consumi, la finanza, ogni aspetto della vita pubblica, persino l’amministrazione locale o statale. Si dice che per governare c’è bisogno della partecipazione di comunità di esperti, cittadini, lavoratori. L’obiettivo delle nuove tecnologie è quello di condividere le risorse e ridistribuire il potere. Si dice che gli strumenti siano neutri: il Liquid Feedback, l’OpenSpending o l’OpenMinistry. Queste piattaforme comunicative puntano a diventare network consapevoli che richiedono la partecipazione attiva per rigenerare le città, proteggere i luoghi dalle speculazioni, mobilitare la cittadinanza e decidere sugli aspetti più importanti della vita associata.



Questi dispositivi non sono neutrali. Dipendono dall’uso che ne facciamo. Sono come Internet che non è una casa di vetro, è un apparato di cattura. L’uso delle pratiche è politico. Se usiamo i network come i grandi editori, i rentier che speculano sui makers o sui coworkers, non poniamo un problema politico: riproduciamo la nostra subordinazione. Ci sfruttiamo a vicenda. Un torto fatto a uno, è un torto per tutti. L’uso politico della rete serve ad affrontare il problema della vita oggi: il fisco, la malattia, la ricerca del lavoro, la produzione del valore. Il reddito. E poi, anche la cura e il diritto alla felicità.

Fare in comune

Questo è il lavoro culturale. Il suo principio è il «fare in comune» – il vero tratto ontologico nel capitalismo contemporaneo. È usato dai colossi della sharing economy, quelli che hanno ucciso la sharing economy, come Uber. O da quelli che mettono in vetrina ed espongono come nelle fiere il frutto delle innovazioni, dell’ingegno, del making. Per commercializzarli, trovare la strada difficile per coniugare il reddito con il prodotto di un mestiere creativo. Esistono bandi europei, grandi investimenti per creare incubatori, acceleratori, piattaforme o distretti. Sono lo scheletro della smart city, il modello di città a misura della partecipazione senza intermediazioni. Se produci un brevetto, devi essere messo in contatto con il finanziatore. Se produci un servizio, sei a contatto con i clienti, senza agenzie di intermediazioni. Se hai un appartamento, lo condividi con estranei. La vita è condivisione. Ma questa vita open access produce un reddito? Dov’è il lavoro e cosa lascia di sé chi lavora nella relazione che produce?

Facebook: la mediazione evanescente

Su questa domanda si infrangono molte delle velleità attuali. Doc(k)s dovrebbe invece rispondere a queste domande. Prenderle di petto, cercare una soluzione. Questo è il lavoro culturale, oggi. Portare una novità nel panorama delle teorie sull’innovazione sociale che discute solo sulle forme di distribuzione dei servizi e della circolazione del valore. Tale distribuzione è garantita dalla mediazione evanescente di giganteschi operatori globali delle relazioni e dell’interconnessione tra persone. Oggi anche le amministrazioni e i governi pensano come Facebook: promuovono la partecipazione dal basso dei cittadini per colmare l’assenza del Welfare. Se hai un debito, e non paghi le tasse, puoi pulire le aiuole del municipio gratis per saldare le tue colpe. Se sei disoccupato, puoi utilmente fare il «bene comune» della tua città pulendo le Tag sui muri del tuo quartiere o spazzare l’immondizia nelle strade. È lo stesso concetto: partecipa anche tu all’impresa collettiva, lavora alla reciprocità di massa, senza avere nulla in cambio che non sia il customer care.

Oggi il salario è simbolico, è visibilità, altruismo, devozione a una causa comune oppure conquista di un prestigio individuale che poi vola via. L’industria editoriale, il giornalismo, l’università, i grandi eventi come Expo funzionano allo stesso modo: lavori gratis per te stesso. Così arricchisci i network globali e a te resta l’impressione di avere partecipato a qualcosa di grande che vale per pochi. Come fermare questo circuito dell’autosfruttamento? Creando reti di autogoverno.

Organizzare lavoro e comunità

Il lavoro culturale è come un pescatore. Con le sue reti si fa levatore di community organizer e labour organizer. Organizza comunità e lavori tra individui, lettori e utenti in ragione del suo essere impresa comune distribuita; crea strategie di affidamento collettivo attraverso l’auto-organizzazione mutualistica in rete; fa emergere linee di riconoscimento dal basso e di creazione di una reputazione collettiva.

Queste banchine le immagino come una community aperta, non solo un’iniziativa imprenditoriale chiusa, capace di creare reti per agganciare ed essere a sua volta agganciata dai dispositivi che costruiscono l’identità personale e collettiva, permettono una risposta immediata alle esigenze emotive, politiche, culturali del pubblico-lettore-utente-cittadino, e soprattutto il riconoscimento reciproco che permette la trasformazione del prodotto come dei produttori e dei consumatori.

Il lavoro culturale è unire forme di produzione atomizzata a atti di cittadinanza. Queste connessioni temporali le possiamo declinare in forme di mutualità, mutuo aiuto e di innovazione legislativa. Il reddito guadagnato serve per sé, e per l’impresa comune. Si fa una cassa, si investe in noi. Al suo interno si possono usare transazioni monetarie complementari. Al suo esterno si possono creare convenzioni e scambi di servizi, validi nelle reti territoriali, nazionali, ma anche fuori dall’Italia. Costruire comunità a venire. Creare consorzi. Realizzare progetti.

Vita open access

Ecco come lo immagino il lavoro culturale: un’impresa collettiva distribuita sul territorio e in rete. Tale impresa non funziona come un partito politico, almeno come quello che abbiamo conosciuto nel Novecento. Funziona, invece, quando federa gli interessi e favorisce la convergenza delle attività in una serie di iniziative finalizzate alla redistribuzione di servizi, progetti, prodotti o campagne. Questo lavoro serve a creare autonomia, non a difendere i nostri rifugi.

È la vita open access di tutti i Bianciardi di domani.

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