mercoledì 23 novembre 2011

Diritto alla maternità? Lo decide il barone

Medioevo italiano e selezione biopolitica. Accade all'università di Firenze dove le ricercatrici precarie avranno diritto alla tutela della maternità solo se il docente di riferimento troverà i fondi necessari.
Roberto Ciccarelli
Nel medioevo italiano non è, forse, più tempo del detto biblico: “Partorirai con dolore”, ma le donne che lavorano precariamente all'università dovranno affrontare una maledizione più sottile. Se hanno deciso di avere un figlio, dovranno attendere che il loro barone trovi i soldi per finanziare l'indennità che il diritto del lavoro prevede per tutte le lavoratrici dipendenti, ma non per quelle indipendenti o freelance. Solo la buona volontà del maschio, professore ordinario, la sua disponibilità finanziaria, o ancora i contatti che ha nel mondo delle imprese o con qualche collega disposto a stornare migliaia di euro, garantirà alle ricercatrici la tutela della loro maternità. È quello che accade nell'ateneo di Firenze dove le donne che lavorano con un assegno di ricerca cofinanziato dovranno aspettare che il loro “tutor” - di solito maschio e professore ordinario – individui le risorse per finanziare l’integrazione dell’indennità corrisposta dall’Inps in caso di congedo di maternità. Un assegno di ricerca costa al dipartimento (ossia al professore che reperisce i fondi) da un minimo di 22.816,91 euro a un massimo di 25.177 euro lordi (soglia arbitrariamente fissata dal regolamento adottato dall'ateneo fiorentino, ma assente nella legge Gelmini).
Nella circolare dell'ateneo fiorentino – si legge in un comunicato del Coordinamento dei Precari dell'Università (Cpu) e della Flc-Cgil Firenze - non viene specificato se l'indennità varierà a seconda dell’anzianità contributiva della titolare dell’assegno o se corrisponderà a due o cinque mensilità (come stabilito dall'Inps per le indipendenti).  Quello che è certo è che i costi del welfare, anziché gravare sulle casse di Ateneo sono rimessi al singolo responsabile della ricerca, alla sua capacità di procacciare fondi, cioè al “maschio” . In questo modo si intende far pagare alla donna che decide di fare un figlio un rischio che invece dovrebbe essere un diritto tutelato. 
Le ricercatrici fiorentine affrontano così lo stesso destino riservato alle professioniste autonome, a partita Iva, alle contrattiste e alle donne che lavorano in nero o sottopagate. In realtà I congedi parentali per le collaboratrici sono stati introdotti dalla legge, ma non ancora applicati. In ogni caso sono largamente inferiori a quelli contemplati per le dipendenti: 3 mesi nel primo anno di vita del bambino, contro i 6 mesi entro il terzo anno di vita del bambino previsti per le dipendenti (o ancor di più se il reddito del richiedente non superi di due volte e mezzo l’importo del trattamento minimo pensionistico). Nel sistema biopolitico del welfare italiano non è prevista alcuna copertura previdenziale per i congedi parentali delle "collaboratrici", delle "assegniste" o, più in generale, di tutte le donne che non hanno un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Questo problema era stato chiaramente affrontato dalla riforma Gelmini che aveva straordinariamente inserito il diritto alla continuità di reddito nel periodo di astensione obbligatoria per maternità delle assegniste (comma 6 dell’art. 22, legge n. 240/2010). La si potrebbe definire una conquista visto che mai dal 1997 ad oggi, anno in cui è stato istituito l'assegno di ricerca, utile cuscinetto per assorbire i ricercatori eccedenti, disoccupati, intermittenti o impossibilitati a rientrare nel circuito accademico "ufficiale", l'università italiana si è posta questo problema.
L'orientamento dell'ateneo fiorentino, oltre a rivelare l'ampia discrezionalità che la legge Gelmini affida ai dipartimenti, e in particolare ai baroni nella scelta dei criteri della selezione, conferma la realtà della società della conoscenza italiana: possono fare ricerca solo gli uomini, ma non le donne in età fertile. Nessuno dei due sarà comunque titolare di un diritto alla maternità o alla paternità. Salvo nei casi in cui il loro barone troverà qualche spicciolo.

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