martedì 22 novembre 2011

Insolitamente furiosi, a Firenze

Gianni Del Panta - perUnaltracittà

Un incontro insolito. Laconicamente è questo il commento che rende meglio le sensazioni che abbiamo vissuto nel lasciare la Sala delle Miniature di Palazzo Vecchio, dove Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri avevano appena concluso la presentazione del loro nuovo libro scritto a quattro mani: “La furia dei cervelli”. Incontro insolito non solamente per l’orario e la giornata scelti (sabato pomeriggio), ma anche per l’inattesa partecipazione di pubblico: attento ed incuriosito nell’ascoltare gli autori, così come prolisso e variegato nel sollevar loro quesiti. Un’atmosfera resa particolare anche da quello che ci circondava. Nelle vie adiacenti il consueto weekend di shopping frenetico nella città-vetrina scorreva con cadenzata ripetitività, mentre asserragliati al piano sottostante al nostro “i massimi esponenti del mondo industriale, economico, finanziario, politico, sociale e culturale del Paese”, riuniti dall’Aspen Institute, “discutevano in massima riservatezza delle misure da adottare per uscire dall’attuale crisi economico-finanziaria”. L’immagine di Maurizio Da Re, che con attivismo frenetico preparava cartoncini colorati (come in una caccia al tesoro) per guidare gli spettatori all’incontro in un Palazzo Vecchio blindato, strideva così con particolare forza rispetto all’esclusione perorata dall’Aspen Institute attraverso guardiani fintamente eleganti e cancelli rigorosamente sigillati. Insomma, una nitida polaroid dell’idea di partecipazione espressa dalle nostre classi dirigenti.

L’incontro, promosso dalla lista di cittadinanza perUnaltracittà e da DemocraziaKmzero, si inseriva in quel ciclo di appuntamenti (inaugurato da Joseph Halevi giovedì 10 novembre e che proseguirà con un prossimo appuntamento sabato 26 novembre alle 10,30 con l’intervista di Cristiano Lucchi a Roberta Carlini di “Sbilanciamoci”) volto ad approfondire i temi della crisi economica e finanziaria.

Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri, sollecitati dalle domande di Ilaria Agostini, armata di estro ed accompagnata da citazioni dotte, hanno ricostruito la genesi del proprio lavoro, muovendo dal quasi naturale lapsus che provoca a prima vista il titolo della loro opera. Come segnalato nella presentazione da Ornella De Zordo “La furia dei cervelli” è infatti spesso, quasi meccanicamente, traslato nella desolante, quanto ricorrente, formula della “fuga dei cervelli”. Una realtà estremamente circostanziata nei numeri, ma divenuta nel comune sentire prassi diffusa tra i lavoratori della conoscenza, volta soprattutto a rappresentare la precarietà come una forma di vita povera e sfortuna. Gli autori così già dal titolo marchiano la propria alterità rispetto alla vasta letteratura, “ispirata all’italico sentimento dell’autocompatimento e della nostalgia”, fiorita attorno a quella che partiti, sindacati e giornali rappresentano come la condizione giovanile. 

Il libro è soprattutto una colonizzazione del futuro, un grido di speranza e di furore, una cesura netta e profonda con il secolo passato e con il patto sociale che lo ha animato ed attraversato: quello fordista. Ciccarelli e Allegri sgomberano per prima cosa il campo da quelle dicotomie utilizzate dal sistema vigente per imbrigliare ed arginare il soggetto da loro analizzato: il Quinto Stato. Le tradizionali distinzioni tra giovani e vecchi, tra garantiti e non-garantiti non possono cogliere la complessità e l’eterogeneità della dizione che i due autori coniano parafrasando Sieyes. Il Quinto Stato è figlio della trasformazione della produzione in senso post-fordista di fine anni Settanta, della diffusione del lavoro della conoscenza, della crescita di soggetti senza cittadinanza perché esclusi da quel patto sociale che si fondava sulla figura del lavoratore subordinato a tempo indeterminato. Un esercito di sfruttati cresciuto nel deserto sociale del neo-liberismo, istituzionalizzato dal famigerato “pacchetto Treu” del 1997 e dalla impropriamente detta “legge Biagi”, ma che trova nel biennio della transizione 1992-1994 il nucleo portante del suo disegno ideologico.

Una zona grigia in gran parte costituita dagli “intellettuali eccedenti, sospesi tra schiavitù ed autonomia”, ma che non si esaurisce con questi. Sei/sette milioni di lavoratori, in gran parte giovani, ma non solo, “senza un contratto decente, raramente con un reddito dignitoso”, inconsapevoli persino di avere diritti. Sono gli esclusi, gli emarginati del mondo post-1989 perché non integrati in quel patto di cittadinanza calibrato sul possesso di un lavoro stabile e duraturo. La loro condizione di extra-territorialità li accomuna così ai cinque milioni di migranti presenti sul suolo nazionale, non-inclusi in quanto “stranieri, barbari, indipendenti”.

I primi quattro capitoli del libro sono una genealogia antica e moderna del Quinto Stato. Antica, nel rintracciarne le origini nei secoli passati; moderna, nell’evidenziarne l’improvvisa centralità numerica e simbolica assunta a partire dalla caduta del muro di Berlino.

Un’analisi colta, raffinata, ricercata. Un libro-progetto che muove dalla consapevolezza dell’incapacità di sindacati e delle molte anime della sinistra (da quella moderata a quella radicale) di adeguare il loro linguaggio e i loro parametri mentali ad uno scenario post-fordista. La gauche nostrana, stretta tra il servilismo più vile all’ideologia neoliberista e il rimpianto di una mitica età dell’oro, è incapace di vivere il presente, di pensare il futuro. Il furore degli autori nasce anche da qui: dalla volontà di chiudere definitivamente i conti con il Secolo Breve e con un patto sociale che immaginano non estendibile al Quinto Stato. Siamo così già entrati nella seconda parte del testo, dove si delineano i movimenti resistenti che hanno animato l’attuale passaggio storico: dagli studenti ai ricercatori, dai lavoratori della conoscenza al Teatro Valle Occupato. Soggetti diversi, ma accomunati dalla non-delega, dalla partecipazione in prima persona, dall’auto-organizzazione come presupposto e forma suprema dell’agire politico. 

 Il Quinto Stato è al momento solo una potenzialità, per emergere come soggetto politico ed autonomo dovrà, a parere degli autori, federare le realtà resistenti, “adottare la cultura del mutualismo e della cooperazione”, spargere conflitto ed organizzare l’insubordinazione alle strutture esistenti. Ciccarelli e Allegri tracciano le coordinate di una zona estranea all’assistenzialismo statale e all’anarchia del mercato, con istituzioni e diritti non più ponderati sulla condizione di lavoratore, ma di cittadino. La cesura rispetto al passato è netta, lacerante, personalmente aggiungerei anche dolorosa. Così, se il limite del Terzo Stato, descritto dall’abate francese Sieyes e al quale va comunque il merito di aver abbattuto le strutture dell’Ancien Régime, risiederebbe nell’aver vincolato “la richiesta di cittadinanza ad una condizione professionale”; il contingentamento del Quarto Stato (il proletariato moderno), teorizzato da Marx e Engels, poggerebbe invece sull’aver limitato “la lotta politica alla lotta economica”. La richiesta di un nuovo patto sociale, calibrato su una cittadinanza massimamente inclusiva, è quindi l’urlo e il furore dell’umanità tutta, e non più solo di una parte di essa. In questo passaggio, a nostro giudizio, è rintracciabile una filantropia quasi feuerbachiana da parte degli autori.

Stuzzicato dalle domande del pubblico Giuseppe Allegri illustra anche delle proposte pratiche: dalla sostituzione degli attuali ammortizzatori sociali con forme di reddito garantito per certe figure professionali all’introduzione di un welfare metropolitano, da garanzie di protezione sociale a livello europeo a nuove forme di mutualismo. Rimangono idee in libertà. La Repubblica del Quinto Stato è infatti un progetto in fieri, in divenire, che non può essere attuato sotto dettatura perché ancora non nitido, perché sarà il Quinto Stato attraverso l’auto-organizzazione a scrivere il proprio futuro. Autonomia, cooperazione, indipendenza: questa è la triade che gli autori assegnano alla politica che verrà. Noi, molto più semplicemente, presentiamo il loro testo come interessante, illuminante, insolito. Proprio come l’incontro che ci hanno regalato a Palazzo Vecchio.

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