sabato 10 marzo 2012

DA GENTILUOMINI A MERCENARI



Dario Banfi e Sergio Bologna*

Alle origini del lavoro indipendente, delle professioni e del precariato. Un racconto su quello è diventato, oggi, il lavoro e, domani, di cosa sarà. Una lettura irrinunciabile per capire di cosa parliamo quando parliamo di "riforma del lavoro", "riforme delle professioni" o lavoro subordinato e autonomo.



L'ideologia del professionalismo e la sua crisi


Non è proprio un libriccino il testo che l’International Labour Office ha dedicato alla figura che l’immaginario collettivo associa di più al professionista di successo: il consulente di direzione. Pubblicato alla metà degli Anni Settanta e più volte aggiornato nei decenni successivi, è un’opera collettiva alla quale hanno dato il loro contributo personaggi che in seguito sarebbero diventati delle star, come Roland Berger e altri. Ad un certo momento nel testo spunta la domanda: “la consulenza è una professione?” 



La risposta è molto significativa: 

“Noi chiamiamo la consulenza di direzione una professione emergente o una professione in divenire, o un’industria con significative caratteristiche e ambizioni professionali…ma potrebbe non essere così importante decidere se la consulenza è o non è una professione, dopo tutto ha dimostrato di poter prosperare anche senza questa decisione…Ancora oggi, anche in ambienti di cultura manageriale molto sofisticata, virtualmente ognuno può chiamare se stesso o se stessa ‘consulente’ di direzione d’impresa e offrire servizi alle imprese senza alcun diploma o certificato, senza alcuna licenza, credenziale o registrazione”.

Questo discorso potrebbe essere esteso a tutte le attività cognitive che vengono svolte da persone che si presentano sul mercato come lavoratori indipendenti ma non appartengono alle categorie definite come “professioni liberali” (medici, avvocati, architetti ecc.). Per costoro sapere se la loro attività ha diritto ad essere definita “professione” o se sul loro biglietto da visita possono metter la parola “professionista” potrebbe non essere molto importante, come dice l’ILO, ciò che importa è una situazione di mercato favorevole e la disponibilità del committente a pagare bene e in tempi accettabili. Ma purtroppo non è così, in quanto il termine “professione” si è caricato dalla metà dell’Ottocento di tali significati simbolici più o meno identificativi di uno status sociale che non si può pensare di buttarlo, senza averne esaminato bene la storia. Inoltre, motivo ancora più importante per fermarsi a discutere prima di passare oltre, esiste una forte tendenza di molte associazioni di “nuove” professioni non regolamentate a seguire processi di coalizione e rappresentanza analoghi a quelli delle professioni liberali governate da Ordini. Noi riteniamo che questa sia una strada sbagliata da percorrere, il perché ce lo dice la storia stessa del termine “professione” ed i mutamenti che la cultura associata a questa simbologia ha subito nelle diverse fasi della società industriale moderna.  

Alle origini di un’ideologia
Non ha che l’imbarazzo della scelta chi vuole analizzare più da vicino quel costrutto mentale che è stato chiamato cultura o ideologia del professionalismo, la letteratura sull’argomento è ricca ed articolata. Noi abbiamo deciso di cominciare da un testo che alla metà degli Anni Settanta ha aperto una stagione di dibattiti molto vivaci sul rapporto tra culture e costituzione di ceti sociali, un testo che riproponeva ad un livello elevato di considerazione storica gli stimoli provenienti dall’inquieta ma vivissima società di allora: The Culture of Professionalism, di Buston J. Bledstein. Nel termine professionalism c’è l’idea di “specialismo” e potrebbe essere questa la traduzione migliore in quanto il discorso di Bledstein riguarda in particolare lo specialismo accademico, ossia l’istituzionalizzazione del sapere in linguaggi gergali, sostanzialmente retorici, che mette in moto comportamenti autoreferenziali e costrizioni sociali (la carriera accademica) ma riguarda anche la nascita e lo sviluppo della professional expertise in generale, cioè qualcosa di più della singola professione, un ruolo sociale riconosciuto ed esercitato molto spesso sotto forma di lavoro indipendente. 

Bledstein colloca la nascita del professionalismo nella seconda metà dell’Ottocento, quando l’America, a suo dire, cercava in tutti i modi di distinguersi dal Vecchio Continente, rifiutando la distinzione in classi della società e costruendo l’identità nazionale sull’idea di una società a classe unica, la middle class, dove non esistessero più né aristocratici né proletari. La soluzione ingegnosa per venire a capo di questo problema sarebbe stata quella di proporre l’ideologia meritocratica come criterio di lettura delle differenze sociali, che non esisterebbero di per sé, come eredità di divisioni secolari che si sono trasmesse di generazione in generazione, né prodotto di un ordine politico architettato per mantenerle tali, ma semplicemente il risultato di una maggiore o minore affermazione dell’individuo secondo le sue doti di abilità e capacità di competere. Veicolo di questa ideologia fu la cultura del professionalismo “una cultura che è servita a meraviglia ad individui che aspiravano a pensare molto bene di se stessi” , veicolo potente perché faceva leva non solo sull’ambizione ma sull’insicurezza delle persone (“forse nessun sistema di pensiero puritano è mai riuscito ad usare l’insicurezza della gente così come è riuscita a farlo la cultura del professionalismo”). 

Che l’ideologia meritocratica e il mito del self made man fossero una componente essenziale dello spirito dell’America era un dato acquisito ben prima che Bledstein scrivesse il suo libro, la sua interpretazione però era assai originale non tanto nel riconoscere valore costituente a quella ideologia, quanto nel dare a quella ideologia un corpo, una figura sociale ben individuata, quella dello specialista, del professional. In modo da potersi chiedere, subito dopo, se questa figura non divenisse contraddittoria con quella di una società a classe unica, perché i professionals si costituiscono inevitabilmente in una élite e quindi finiscono per diventare fedeli più alle convenzioni del loro linguaggio che alla verità, riuscendo ad essere tanto più influenti in quanto a loro viene delegata la formazione della classe dirigente ed in particolare l’insegnamento universitario. Si badi che Bledstein non critica il linguaggio esoterico, critica il linguaggio “specialistico”, la mentalità specialistica. Il suo interesse si rivolge all’istituzione formativa di alto grado, come dice chiaramente il sottotitolo, e accenna solamente al problema che interessa a noi, quello delle professioni della conoscenza. 

Ma dagli studi di brillanti americanisti sappiamo che nell’epoca di cui lui parla, che sta a cavallo tra Ottocento e  Novecento, le grandi corporations americane avevano scoperto l’utilità di impiegare conoscenze professionali indipendenti o salariate sia per migliorare la loro immagine all’esterno (le public relations), sia per migliorare i rapporti con il personale (le human relations). Da queste prime esperienze si sviluppa il mercato della consulenza al management, che porta da un lato alla formazione di grandi società multinazionali, di dimensione pari a quella dei loro clienti, ma dall’altra alla costituzione di un mercato parallelo di professionisti indipendenti che arricchisce il settore dei “servizi alle imprese”. Sono tre austriaci emigrati negli USA per sfuggire al nazismo che aprono nuove strade per la consulenza d’impresa, Peter Drucker nelle teorie del management, Paul Lazarsfeld nel marketing e Edward Bernays, il nipote di Freud, nelle pubbliche relazioni. 

Si sviluppa dagli Anni Venti anche in Europa, un mercato di lavoratori della conoscenza (brain worker) che forniscono servizi al mondo dei media, della pubblicità, della cultura di massa, dello spettacolo, per l’elaborazione di testi, la creazione di grafica ed altro e sono in gran parte dei freelance o integrano con il reddito proveniente da questi servizi quello, insufficiente, che deriva dalle loro vocazioni artistiche o letterarie. La professional expertise diventa una pratica riconosciuta dal modo di produzione fordista e dall’ambiente metropolitano. Con la grande mobilitazione di risorse del New Deal roosveltiano la funzione dell’”esperto” viene incorporata nella macchina amministrativa, nelle agenzie governative ed acquista, in certe campagne, un valore analogo a quello del social worker, cioè a chi deve stabilire il collegamento tra i bisogni oscuri o nascosti o inespressi della società e lo stato assistenziale.

Al tempo stesso, con l’immissione sempre più massiccia di conoscenze tecnico-scientifiche nel mondo della grande impresa e la necessità di rispondere all’obsolescenza delle tecniche e delle competenze, comincia a svilupparsi il settore della formazione esercitata al di fuori dell’istituzione scolastica pubblica. E’ la prima comparsa di un mercato dei freelance ma subito frenata da un lato dalla preferenza delle imprese di allora di internalizzare le competenze (il fordismo è la generalizzazione della società salariata) e dall’altro dall’ingerenza sempre maggiore dello stato nei processi economici e sociali che porta alla trasformazione di molti professionisti indipendenti in funzionari pubblici. Il mercato dei freelance tornerà non a caso ad aprirsi e poi ad esplodere negli Anni Settanta e Ottanta in seguito a processi di esternalizzazione ed a una graduale ritirata della mano pubblica dall’erogazione di servizi. 

Pastoie italiane
(…)
 Il regime fascista avrebbe voluto sostituire integralmente il modello liberale dell’autonomia della professione riconosciuta dallo Stato con il modello corporativo, che assimila le professioni intellettuali al mondo del lavoro tout court, negando loro uno status particolare. In realtà dovette accontentarsi di un compromesso: quando era interesse politico esaltare le scoperte italiane sui prodotti sintetici il fascismo diede riconoscimento alla professione di chimico. Analogamente si comportò il governo repubblicano nel 1962, che, indotto dai successi dell’Ente Nazionale Idrocarburi nella ricerca e nell’approvvigionamento di fonti energetiche, diede il riconoscimento alla professione di geologo. Il rapporto tra professioni tecniche e sviluppo dell’innovazione nel settore manifatturiero è stato molto stretto nei percorsi di riconoscimento.

“Il caso dell’ingegneria mostra con chiarezza che le origini delle professioni diverse dalle ‘classiche’ … vanno inquadrate nella profonda trasformazione subita dal capitalismo”, scrive uno dei maggiori studiosi del fenomeno in Italia, “l’evoluzione della divisione del lavoro nelle grandi organizzazioni private e pubbliche crea di continuo nuove occupazioni specializzate, molte delle quali si pongono il traguardo della professionalizzazione”. 

L’Associazione Nazionale degli Ingegneri Italiani viene costituita nel 1919, quattro anni dopo si avrà sia l’istituzione dell’Ordine degli Ingegneri e degli Architetti che la riforma dell’istruzione superiore, grazie alla quale ai diplomati degli Istituti tecnici viene negato l’accesso all’Università, nel 1933 viene istituito l’esame di Stato. Ma tutto questo processo si svolge in un quadro di forte crisi occupazionale, è la mancanza di lavoro che porta gli ingegneri a costituirsi in gruppo di pressione, mentre per tutto il periodo del fascismo la conflittualità interprofessionale tra ingegneri, architetti, geometri, periti industriali, agrimensori rimane accesa e si allenta solo in parte nel dopoguerra con il boom edilizio degli Anni Sessanta. Anche la storia italiana dimostra che il mercato, inteso come insieme di fattori che trasformano i modi di produzione e gli stili di consumo, è il fattore decisivo nel condizionare l’ascesa e il declino delle professioni intellettuali. Il mercato, secondo le dottrine liberali, è un sistema che si autoregola, come sappiamo è invece un sistema che produce distorsioni e disuguaglianze. La conflittualità all’interno delle professioni tecniche si è mantenuta elevata anche negli Anni Sessanta e Settanta. 

E’ bastato liberalizzare gli accessi all’Università nel 1969 e permettere a periti e geometri di diventare architetti e ingegneri perché si producesse un boom dell’offerta e il controllo dell’accesso alla professione, che è una delle ragioni degli Ordini, fosse reso un atto puramente formale. Come se non bastasse, i liberi professionisti indipendenti, quelli che esercitavano attività di lavoro autonomo, erano messi in difficoltà dalla concorrenza esercitata da ingegneri e architetti, salariati delle Pubbliche Amministrazioni, che a part time o come secondo lavoro, spesso in nero, firmavano progetti. La situazione sembra sia andata migliorando solo quando si aprì il nuovo mercato delle Regioni, ma questo dimostra ancora una volta che la pretesa di possedere una competenza esclusiva è forte nei periodi di magra della domanda e si allenta quando c’è lavoro più o meno per tutti. E’ un sistema di autodifesa parasindacale, non c’entra nulla con codici etici e saperi esclusivi. Ma poiché il mercato dei servizi professionali è dominato dalla domanda, questi sistemi di difesa parasindacale non producono alcun effetto di riequilibrio e trasferiscono allora la loro impotenza nelle dinamiche interne all’Ordine stesso, creando cricche di potere e pratiche di nepotismo di cui sono vittime gli iscritti o più giovani o privi di adeguato lignaggio.

“Le libere professioni sono in realtà un gruppo di occupazioni accomunate essenzialmente da un’ideologia. Si tratta di un’ideologia che è stata promossa con successo dalle élites che dominano alcune occupazioni particolarmente prestigiose (soprattutto medici e avvocati), si è diffusa nelle società capitalistiche grazie alle sue affinità con l’ideologia dominante, ed ha mietuto vittime tra gli stessi scienziati sociali”. 

Possiamo condividere o meno questa tesi di Tousijn, l’esperienza passata delle professioni che in Italia hanno ottenuto un riconoscimento pubblico e sono organizzate in Ordini sembra dargli ragione. Incapaci di riequilibrare gli alti e bassi della domanda, hanno creato diseguaglianze all’interno della stessa professione e, aspetto non trascurabile, non sono nemmeno riuscite ad esercitare una vigilanza sulla qualità della prestazione. L’Ordine dei Giornalisti è riuscito forse a fermare il degrado dell’informazione e lo stile dei media nel nostro Paese? Ci ha provato, almeno? E del resto, se non ci è riuscita nemmeno la professione più protetta in assoluto, quella dell’insegnamento universitario, a vigilare sulla qualità del corpo docente, bloccando sempre la pretesa di semianalfabeti a salire in cattedra, come possiamo pretendere che ci riescano professioni meno protette? Proprio per questo ci sembra incomprensibile come si possa pensare di ripetere il percorso della professionalizzazione da parte dei nuovi lavoratori della conoscenza. Se c’è un modello al quale non dovrebbero ispirarsi è proprio il frusto modello degli Ordini, degli Albi, dei Collegi.

Quando, agli inizi degli Anni Ottanta, si diffondono le “nuove” professioni nei servizi alle imprese e alle persone, il modello ordinistico già mostra ampiamente la corda per quelli ai quali lo Stato ha dato un riconoscimento pubblico.

“Oggi, come in passato, gli ordini italiani svolgono funzioni burocratiche, si limitano a verificare che i nuovi iscritti siano in regola con la legge e non hanno alcun potere di regolazione degli ingressi, che è affidato agli esami di stato. Altrimenti non si spiegherebbe perché proprio le professioni ordinistiche abbiano registrato negli ultimi anni un aumento del numero degli esercenti così esorbitante”  
Basti pensare agli avvocati: 230 mila in Italia, 15 mila in più all’anno. L’Albo dell’Ordine di Milano-città, aggiornato ad aprile 2010, conta 15.600 iscritti nell’elenco ordinario, 3.200 abilitati e 1.500 praticanti. “Il 35% del reddito della categoria è prodotto dal 15% dei legali, i clienti che non pagano, i grandi studi che licenziano, la concorrenza feroce, il caro previdenza aggravato dal fenomeno degli avvocati ‘fantasma’ iscritti all'Ordine ma che non versano alla Cassa forense”.

E tuttavia il coagulo di interessi che si è formato attorno agli Ordini riesce ancora a difenderne la funzione. Benché la linea dell’Unione Europea e dell’Autorità Antitrust sia stata quella di identificare professioni e imprese, alla fine 

“L’Unione europea ha ceduto alle pressioni delle professioni protette annacquando il liberismo puro che aveva contraddistinto i suoi precedenti programmi”  

Pur riconoscendo che le professioni, ormai assimilate alle imprese, sono “sottoposte ad una mutazione irreversibile della loro natura e delle loro funzioni” , una studiosa come la Malatesta dimostra di credere ancora alla natura particolare dell’etica professionale, fonte di quella reputazione che al professionista veniva riconosciuta per la natura sociale del suo lavoro e cita il caso di medici e avvocati che svolgono in condizioni estreme la loro arte. In realtà, ci sembra di poter obbiettare, se un medico invece di fare soldi con uno studio avviato a Parigi preferisce rischiare la pelle in zone di guerra con “Médecins sans frontières” è per una scelta che rientra nella sua visione generale del mondo e dei rapporti politico-sociali, è per convinzioni ideologiche o religiose, più che per fedeltà a un codice etico della professione.

Il momento in cui gli Ordini professionali acquistano rilievo e si pongono ancora come una forza sociale in grado di condizionare lo Stato è nel periodo dei governi di centro-sinistra allo scadere del secondo millennio. Riescono a respingere i propositi governativi di abolirli in nome della liberalizzazione sostenuta dall’Unione Europea, dimostrando ancora una volta che in momenti di difficoltà alcuni strati di ceto medio possono mobilitarsi con successo, ma non riescono a porsi come “terza forza” tra le rappresentanze sociali di Confindustria e dei tre sindacati CGIL, CISL e UIL. In realtà da almeno un decennio, anche in Italia, la tematica delle professioni intellettuali converge, come scrive Prandstraller, “su quella più complessa che riguarda i knowledge worker”. I professionisti sono “una parte, fondamentale ma non esaustiva, d’un nuovo ceto composto dalle varie espressioni dei lavoratori della conoscenza”.

Le prime ricerche sui lavoratori della conoscenza che assumono questi parametri di valutazione compaiono in Italia alla metà degli Anni Novanta. Finalmente si esce dalla palude della sociologia delle professioni, si smette di discettare sulle opinioni delle varie scuole e si torna all’osservazione della realtà empirica, alle prestazioni concrete del lavoro di conoscenza dentro e fuori le imprese. Le inchieste sul lavoro nelle dot.com che si moltiplicano negli Stati Uniti fino alla crisi del 2002, in particolare quelle di Andrew Ross, contribuiscono a spazzare via l’interesse per le questioni del professionalismo. I lavoratori della conoscenza che si sono formati come multiforme strato sociale a partire dagli Anni Ottanta sono un’altra cosa. Negli stessi anni si costituisce la Freelancers Union, l’organizzazione di tutela e di rappresentanza dei lavoratori indipendenti, un sindacato finalmente, una forma associativa che non vuole essere diversa da quelle che storicamente sono state le forme di difesa e rappresentanza del lavoro. Ma nella situazione italiana questa semplice idea fa fatica a farsi largo, anche coloro che ritengono la professione una costruzione intellettuale, come dice Pierre Bourdieu, e non un genere umano, continuano a pensare in termini di Associazioni assimilate agli Ordini, il cui ruolo, tra l’altro, viene messo in discussione dagli stessi che esercitano professioni regolamentate, come si è visto di recente in occasione della discussione in Parlamento della riforma della professione forense. Che il nostro sia un Paese arretrato è ogni giorno più evidente.   

Disagio e risveglio dei ceti medi
La giornalista e saggista Barbara Ehrenreich con il suo sito http://www.unitedprofessionals.org è diventata da qualche anno una protagonista del movimento di autodifesa dei lavoratori white collar americani. Dedica i suoi sforzi ai salariati ma è in sintonia con le Unions dei professionisti indipendenti. Non le si può negare certo coerenza con la sua attività precedente, il tema della middle class è stato uno dei suoi preferiti sin dagli Anni Settanta. E’ del 1977 un saggio in due puntate su “Radical America”, scritto assieme al marito John Ehrenreich, dove abbozza una teoria della formazione di una classe sociale che chiama “professional-manageriale”, di professionisti manager, che verso la metà del secolo scorso sarebbe diventata una componente quantitativamente rilevante della popolazione attiva degli Stati Uniti. La sua formazione risalirebbe agli anni a cavallo del secolo, la cosiddetta Progressive Era, con la costituzione di una serie di figure professionali nuove, il cui ruolo sarebbe stato quello di assicurare l’ordine sociale capitalistico attraverso la razionalizzazione sia dei modi di produzione (taylorismo), sia dei sistemi di governance. Sarebbe nata in quel periodo la figura moderna dell’”esperto”, lo stesso sistema universitario si sarebbe adeguato alle nuove esigenze della società e della produzione, importanti Fondazioni private come la Rockefeller e la Carnegie avrebbero promosso lo sviluppo di questa classe, completamente diversa dalla “piccola borghesia” tradizionale, nella quale gli Ehrenreich includono anche i self employed. Fin qui nulla di nuovo, lo schema è quello di Richard Hofstadter in The Age of Reform (1955), un classico che ha fornito l’interpretazione comunemente accettata della nascita della società americana del Novecento.

Là dove i due Ehrenreich introducono una loro lettura originale è nel mettere in risalto come negli Anni Venti questa classe di funzionari del capitale monopolistico abbia cominciato a ribellarsi in nome delle sue etiche professionali, stringendosi attorno alle loro Associazioni e rivendicando un diritto a governare la società – intesa come sistema d’impresa e come sistema amministrativo - secondo i principi dell’efficienza. Fu un’utopia tecnocratica, destinata a restare sconfitta. “La forma caratteristica di auto-organizzazione della classe professionale-manageriale era la professione”. 
(…)

Max Weber e i precari
Ma torniamo allo schema interpretativo proposto da Bledstein ed allo sviluppo di una cultura, di un’ideologia della professionalità, che avrebbe conferito nei decenni successivi a tanti lavoratori autonomi una loro identità sociale e un senso di appartenenza. Leggendo quelle pagine, il nostro pensiero non può non correre subito a un testo che rimane un caposaldo nella storia della riflessione sul concetto di professione: la conferenza di Max Weber del 1922 su Wissenschaft als Beruf

Qual è il punto di partenza del suo discorso? Proprio un confronto tra il sistema universitario americano e il sistema europeo, tedesco in particolare. Prima di riassumerne brevemente i punti più interessanti ai fini del nostro discorso sul lavoro intellettuale indipendente, occorre ricordare che il termine tedesco Beruf contiene un insieme di significati che non sono traducibili con il semplice termine di “professione”, anche se il modo corrente per definire una libera professione in tedesco è Freiberuf. Quando Weber impiega il termine Beruf è pienamente consapevole di usare una parola che vuol dire, oltre a professione, “vocazione” e quindi nell’analizzare come avviene che una persona decide di scegliere un percorso professionale ritiene di dover tener conto di una serie di condizioni morali in assenza delle quali è difficile esercitare la professione, la “passione” innanzitutto, la dedizione a un’idea di “ progresso”  (“venir superati non è solo la sorte di tutti noi ma lo scopo del nostro lavoro, non possiamo lavorare senza sperare che qualcuno vada più avanti di noi”) e l’innovazione, l’idea che di colpo ti schiarisce la mente, ti illumina (Eingebung), il doversi far venire in testa qualcosa di nuovo (Einfall). 

Quest’ultimo punto, non sufficientemente messo in risalto dalle letture ed interpretazioni correnti di questo testo, è invece di fondamentale importanza perché significa, detto in parole povere, che se una pubblicazione che vuole essere scientifica non contiene nemmeno un frammento di idee nuove, ma è semplicemente una rilettura, nei casi migliori, un rimescolamento, nei casi peggiori, di ciò che altri hanno scritto, meglio avrebbe fatto l’autore a stare zitto. Significa che se un consulente di direzione, nel raccomandare alcune scelte organizzative al management di un’impresa, si limita a riciclare in un’elegante, accattivante, presentazione solo quanto gli è stato detto nell’intervista con l’Amministratore Delegato, meglio farebbe a cambiar mestiere. Ma il fatto che le condizioni per il corretto esercizio di una professione sono condizioni di carattere morale, di disposizione d’animo, più che condizioni di carattere intellettuale, si misura con un contesto sociale in cui, per dirla sempre con Weber, “la scienza è entrata in uno stadio di specializzazione che prima era sconosciuto ed in futuro continuerà a restare così” e ancora “una prestazione professionale definitiva e valida oggi è sempre una prestazione specialistica”. 

Il problema del Beruf nell’epoca fordista – Weber, per la dimestichezza con gli scritti di Lederer, di altri sociologici dell’epoca e di suo fratello Alfred, era perfettamente consapevole della rivoluzione che stava investendo i sistemi d’organizzazione del lavoro – si complica a causa del sempre maggiore “tecnicismo” dei prodotti intellettuali, della sempre maggiore specializzazione della produzione accademica, sotto l’influsso delle tendenze vincenti che provengono da oltre Oceano (“l’università tedesca si americanizza”). Il passaggio non è indolore, perché modifica i percorsi di carriera, il primo capoverso della sua conferenza è dedicato non a caso al modo in cui un giovane entra nel mondo accademico e alle diverse condizioni di lavoro di un Privatdozent  tedesco rispetto a quelle di un assistant americano, precario proletaroide il primo e salariato l’altro.

Weber quindi tocca un punto che nel testo di Bledtsein costituisce un importante interrogativo: la progressiva tecnicizzazione dei prodotti intellettuali, la sempre maggiore richiesta di specializzazione, crea problemi di accesso alle conoscenze da parte della maggioranza dei possibili utenti, innesca una logica di gruppo o di casta che pian piano porta i savants di oggi a parlare linguaggi incomprensibili e di comportarsi come i sacerdoti delle religioni antiche che muovevano le labbra in espressioni che tanto più erano inaccessibili alla comprensione generale, tanto maggiore autorevolezza conferivano alla casta sacerdotale? Può darsi, forse è inevitabile, ma questo interrogativo dimostra come il superamento di queste contraddizioni non possa consistere soltanto in un atteggiamento etico di disponibilità alla comunicazione, la logica dello specialismo è talmente costitutiva del lessico che altri linguaggi non sono possibili.

Dunque è inevitabile la costituzione di caste? Nel caso di professioni tutelate dall’inamovibilità è possibile, nel caso di professioni aperte al libero mercato le logiche sono differenti. Chi aveva letto gli scritti di Weber e conosceva a perfezione la letteratura austro-marxista degli Anni Venti era certamente il viennese Peter Drucker, prima di emigrare negli Stati Uniti e di diventare là il fondatore delle teorie del management, pane quotidiano di molti professionisti che hanno scelto la consulenza di direzione come loro mestiere. Sarebbe un errore infatti pensare che Weber ed i pensatori sociali di lingua tedesca degli Anni Venti e Trenta non avessero presente il ruolo del Beruf nel libero mercato, sia perché hanno avuto un ruolo storicamente rilevante nel definire le caratteristiche dello “spirito imprenditoriale” (Unternehmensgeist) sia perché consideravano le inclinazioni morali e la disposizione d’animo dello scienziato non diversa da quella di un operatore commerciale o di un fondatore di un’impresa, come dice esplicitamente Weber nel testo citato. Anche il businessman deve avere passione, dove essere votato al progresso e deve avere inventiva. 

Dove c’è profession c’è America
L’elaborazione di una filosofia della professione nel libero mercato è un tipico prodotto del pensiero americano, che conserva dei connotati assolutamente caratteristici. Il primo di questi è, strettamente connesso all’ideologia meritocratica, il concetto di personal career. E’ inconcepibile nel pensiero americano un’etica della professione priva di un’idea di successo in una competizione senza quartiere con altri professionisti. Qui sta la radicale separazione dalla morale della professione all’interno dell’istituzione accademica o da quella espressa dalle regole deontologiche delle libere professioni tradizionali, il medico, l’avvocato, l’architetto ecc..

Il problema di costruire un’etica professionale diversa da quella delle professioni liberali attraversa dunque tutta la storia recente del lavoro di conoscenza svolto in maniera indipendente. Benché l’istituzione ospedaliera o la professione forense oggi siano organizzate come imprese che competono sul mercato, il successo che si traduce in termini di prestigio sociale e di reddito, insieme alla volontà di competere, non vengono mai indicati come determinanti indispensabili alla scelta di esercitare la professione di medico o di avvocato, il fondamento etico di queste professioni sta ancora in codici deontologici risalenti nei secoli. Al tempo stesso è naturale che, nel momento in cui si tratta di definire dei parametri che servono a identificare una nuova professione e si delinea la disposizione d’animo necessaria ad esercitarla con successo, il modello delle professioni liberali si presenta come quello di più immediata imitazione o ripetizione. 
(…)
Weber prende la parola con un tempismo eccezionale. Il 1922 è l’anno in cui esce il primo numero della “Harvard Business Review”, e subito uno dei temi dibattuti dalla rivista è “se il business può essere pensato come una professione”, interrogativo non retorico per chi si appresta ad organizzare una scuola di business, evento importante nella storia del sistema universitario americano, del cui futuro promettente sembra si rendano ben conto i primi contributi sul periodico, scritti da docenti della Business School. Nel settembre 1923 la prolusione all’Anno Accademico tenuta dal Presidente A. Lawrence Lovell è esplicita: la scuola è stata creata per rispondere alla domanda impellente di considerare il business management come una professione distinta, per la quale è necessario un percorso formativo specifico, un’Università speciale. L’articolo che Lawrence trae dalla sua prolusione viene pubblicato con l’infelice titolo The Profession of Business, espressione ambigua, che può voler dire tutto (ogni attività di affari è una professione) o nulla, mentre il senso del suo discorso era chiarissimo: noi qui vogliamo formare dei manager, persone destinate ad occupare posizioni di executive in organizzazioni complesse. Era una lucida giustificazione dell’esistenza di un’Università speciale per manager, non contribuiva però a chiarire meglio che cos’è una professione, ma non solo, avrebbe potuto sollevare l’interrogativo: per formare manager è necessaria un’Università?

Nei mesi dopo la crisi del 2008 questi dibattiti degli Anni Venti sono riemersi nelle pagine della “Harvard Business Review”. L’America e l’intera comunità degli affari erano sotto lo shock provocato dal fallimento di Lehmann Brother’s e il grande interrogativo che l’opinione pubblica si poneva era, con puritana inclinazione, “com’è possibile che si sia arrivati a tanto? Gli uomini dell’alta finanza dagli stipendi favolosi non hanno un codice etico al quale debbono attenersi, non esiste una deontologia professionale?” No, non esiste, rispondeva un professore sulla “Harvard Business Review”, perché il management non è una professione, se lo fosse le Business School non sarebbero Università ma scuole professionali. La discussione che si aprì allora e che poi è continuata vivace e talvolta concitata sul blog della rivista, ci permette di intravedere che cosa oggi, alla fine del primo decennio del Duemila, il senso comune delle élites intenda per professione. 
(…)

Freelancing
Il successo dunque, la competizione per il successo. Nel periodo in cui spuntano sul mercato le nuove professioni e chi le esercita non ha un’immediata riconoscibilità sociale e spesso non ha nemmeno una formazione universitaria specifica per la professione che esercita (perché la riorganizzazione dei sistemi didattici pubblici è cronicamente in ritardo rispetto al mercato) due strade si presentano per conferire riconoscibilità al soggetto, la strada delle professioni liberali tradizionali e la strada dell’affermazione economica, della notorietà, del successo insomma. Percorrere la prima strada significa entrare in un territorio riservato a potenti corporazioni che, giustamente, si rifiutano di cedere la loro specificità e la loro chiave d’accesso al riconoscimento sociale.

Un oscuro medico di campagna è pur sempre un medico che può rivendicare per sé il medesimo rispetto riservato al direttore della clinica universitaria. Il freelance delle nuove professioni ha difficoltà persino di spiegare al figlio che razza di lavoro sia il suo, nessun titolo di studio ha certificato la sua competenza, nessun esame di stato gli ha conferito un’ autorizzazione pubblica ad esercitare il suo mestiere. Come può essere riconoscibile socialmente? 

La risposta americana fu la più pragmatica e forse anche la più realistica: diventando ricco e famoso. L’etica del successo andava a pennello per i freelance delle nuove professioni, cioè persone che non potevano dimostrare di essere possessori di particolari competenze certificate da titoli di studio specifici, che non erano tutelate da barriere all’accesso, completamente in balìa del mercato. L’etica del successo e l’ideologia darwiniana che le si associa s’identifica quindi con l’etica professionale. Non  un problema generalizzato di tutte le professioni intellettuali, è un problema specifico di quelle esercitate in maniera indipendente. Uno specialista salariato, che lavora alle dipendenze di un’impresa non ha analoghi problemi di riconoscibilità sociale. Innanzitutto è un impiegato e questo basta a definirlo socialmente, la sua competenza è certificata dall’azienda per cui lavora per il fatto stesso che lo ha assunto per quella mansione e gli offre la possibilità di arricchire le sue conoscenze con l’esperienza sul campo, i suoi percorsi di carriera sono ben definiti da regole aziendali (nel periodo in cui nascono le nuove professioni, nella piena maturità del sistema fordista, i percorsi di carriera nelle aziende obbedivano a dei meccanismi molto rigidi), la sua retribuzione è garantita indipendentemente dal livello delle sue prestazioni (in quel periodo storico la retribuzione in base al rendimento era cominciata  ma per gli impiegati non aveva l’importanza che aveva ed avrebbe avuto in seguito per il lavoro operaio), il suo percorso di carriera è incanalato dentro un’istituzione. 

Il rischio del freelance è di tutt’altra natura, perciò l’etica del successo è anche una specie di eccitante per far apparire il successo come un evento comune, quasi alla portata di tutti, basta volerlo intensamente, basta dedicarvisi anima e corpo. L’etica del successo forma un unico agglomerato mentale con l’etica della competizione, il miraggio del successo è lo strumento con cui si rende convincente l’idea che il comportamento naturale dell’uomo è di natura competitiva, non solo nel mondo del business ma nella vita di ogni giorno, a cominciare dalla prestazione sessuale. 
(…)

Il professionista non deve mai dimenticare che il suo mestiere è erogare servizi, egli è a servizio di qualcuno pur non essendone dipendente. Se nella ricerca del successo il professionista deve assumere un comportamento competitivo e non deve avere alcun riguardo nei confronti dei suoi rivali, nell’esercizio della sua prestazione non solo deve avere riguardo per l’altro, ma deve identificarsi con il suo cliente al punto di coglierne al volo le esigenze e di intuire quali sono le esigenze di cui è inconsapevole. Il vero professionista deve saper conquistare la fiducia del cliente, trustworthiness è una delle parole-chiave dell’etica professionale. 

Occorre prestare attenzione a questo passaggio. Alla radice dell’etica professionale dei lavoratori intellettuali indipendenti, nel momento in cui era necessario configurare una bozza di codice deontologico, il requisito fondamentale richiesto non aveva natura conoscitivo-intellettuale ma emotivo-comportamentale. La padronanza della tecnica era data per scontata, il semplice percorso formativo non bastava, la tecnica era questione d’esperienza, il requisito fondamentale per l’esercizio della professione era un altro: la disposizione d’animo, il vincolo di responsabilità, impliciti nel termine Beruf e che nel linguaggio del professionalismo americano si chiama committment. 
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Ai nuovi professionisti si insegnava che l’erogazione di energia emotiva è il principale atto della prestazione, precedente e superiore l’atto di erogazione di energie fisiche o intellettuali. La dedizione al lavoro e il vincolo morale verso il fruitore della prestazione presuppongono un elevato livello di accettazione della propria condizione sociale, richiedono un cervello e un’anima completamente disponibili al sacrificio di un uso diverso del proprio tempo di vita. In alcune professioni si richiede uno spirito “disinteressato”. Non è così nella maggioranza delle nuove professioni che, prestate a servizio delle imprese, si lasciano permeare dello spirito del business e dunque richiedono uno stile di vita dove la carriera, quella che viene chiamata comunemente “l’affermazione del professionista nel mercato”, rappresenta la principale molla dell’esistenza. 

Negli Anni Ottanta e Novanta abbiamo assistito a un’accettazione di massa di questo stile di comportamento. Persone, professionisti indipendenti o salariati, persone soprattutto impegnate nei ruoli della new economy, donne in particolare, orizzonte mentale e stile di consumo da ceto medio produttivo, lower middle class, hanno interpretato come un unico grande coro questa commedia moderna, hanno dedicato la loro vita al lavoro, hanno occupato la loro mente con il problema del lavoro anche fuori orario, spesso hanno sopportato una vita da cani, talvolta sacrificando le loro relazioni personali, coniuge, figli, amici. Il lavoro ha perduto il suo significato di “prestazione conto terzi” per diventare semplicemente impegno personale, prova di sé, specchio della propria identità. Nemmeno i padri più accaniti del capitalismo, i suoi più ciechi sostenitori avrebbero immaginato una vittoria simile.

La crisi finalmente ha introdotto una crepa, una forte polarizzazione tra chi ha trovato ragione d’intensificare la dedizione e chi ha cominciato a guardare con maggior distacco “la carriera”. Ma le certezze, l’univocità dell’orizzonte mentale, si erano incrinati assai prima. Forse proprio in seguito a una maggiore dedizione femminile al lavoro, il senso di distacco è maturato più rapidamente nella percezione di genere ed ha preso voce nella letteratura e nella saggistica delle donne, si è tradotto in una concezione della vita lavorativa come l’opposto di un percorso lineare, come una permanente “transizione” da uno status professionale a un altro, oppure come un “doppio sì”, alla cura delle relazioni personali e al lavoro conto terzi, al vincolo affettivo e familiare e allo sforzo per migliorare la qualità delle prestazioni professionali. Corredato da venticinque pagine di bibliografia, il Capitolo sulle professioni dell’Handbuch für Soziologie 2010 sottolinea l’importanza del pensiero femminista nella demolizione delle ideologie del professionalismo. 
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Consulenti di direzione: flagello o risorsa? 
Un esempio di come i problemi della reputazione, del rapporto con il mondo accademico e dell’immagine pubblica del lavoro indipendente si confondano talvolta in maniera inestricabile, è dato dalla figura del consulente di direzione d’impresa. Non si può negare che questa sia stata una “nuova” professione molto diversa da quelle liberali, perché non dotata di percorsi formativi specifici o di competenze esclusive. Benché i suoi inizi si possano collocare nel periodo tra le due guerre mondiali, di fatto è dopo il 1945 che ha assunto un ruolo importante ed una sempre maggiore visibilità. Certi studi fanno risalire la sua diffusione in Europa addirittura al Piano Marshall. Indagini condotte sul caso francese ne rintracciano gli inizi già prima e precisamente nelle attività degli ingegneri delle Grandi Scuole che invece di entrare nella Pubblica Amministrazione diventano quadri delle imprese private. 

E’ un caso di studio interessante perché lo sviluppo di quella che è stata chiamata consulting industry ha dato luogo alla costituzione di società di dimensioni multinazionali ma al tempo stesso ha creato quel particolare tipo di capitale che è stato chiamato “capitale simbolico”, posseduto da persone che godono di una reputazione speciale. E’ un’attività che si articola su due poli estremi, quello della grande organizzazione, quindi del marchio, e quello dell’individuo singolo. Tra tutte le attività professionali inoltre è quella che poco per volta ha rappresentato l’esempio vivente del successo individuale. Quando si pensa a un consulente di direzione istintivamente vi si associa la figura di qualche “guru”, di qualche uomo di successo, strapagato, e dunque alla quintessenza del professionalismo. Tanto che spesso la figura del consulente assurge a simbolo delle nuove professioni tout court e anche del lavoro indipendente tout court. Il capitale simbolico che tale figura detiene le deriva da una doppia fonte di luce, quella del management che ne è l’utente e quella del mondo universitario, ambedue universi che godono il massimo prestigio nella nostra società. 

Qualcuno ha parlato di rapporto “simbiotico” tra mondo accademico e la consulenza di direzione, sia perché la figura che svolge questo ruolo occupa non di rado ambedue le posizioni, sia perchè si è verificato spesso uno scambio di tipo utilitaristico tra la posizione del docente universitario e quella di chi svolge il ruolo di consigliere di potenti Amministratori Delegati di grandi aziende. Il consulente procura sponsor all’Università e l’Università gli garantisce una posizione di prestigio e d’inamovibilità. Oppure il docente della Business School apre una società di consulenza e fa da intermediario tra l’Università e l’impresa, procurando forza lavoro intellettuale di valore “scientifico” garantito. Il manager in questo caso potrà contare forse su consulenze meno costose di quelle delle multinazionali, che debbono coprire i costi d’esercizio. Ma la figura del consulente di direzione presenta anche dei lati deboli. I risultati del suo lavoro non sono facilmente verificabili, il contenuto delle attività di consulenza non è facilmente codificabile, è difficile persino descriverlo. 

E’ altrettanto difficile controllare se un’organizzazione ha veramente bisogno di avere consulenti esterni, in definitiva la spesa per consulenze appare quasi un benefit del manager o un suo capriccio personale. Il giudizio sull’operato del consulente e sugli effetti della sua prestazione è riservato al manager che lo ha ingaggiato e il manager non sarà mai disposto ad ammettere di aver sprecato i soldi dell’azienda. Anche in questo caso il rapporto può essere spesso di tipo simbiotico. Negli Anni Novanta il mito della consulenza di direzione si è andato progressivamente appannando, sono proliferate le voci critiche, c’è chi ha definito l‘utilità del consulente di direzione un’utilità puramente theatrical, servirebbe solo a dare spettacolo. Povera di contenuti, priva di idee, della consulenza non rimarrebbe che l’abilità di una presentazione in power point. Ma anche nel caso in cui le idee del consulente fossero eccellenti, la loro efficacia sarebbe ben poca, date le resistenze inerziali dell’organizzazione a metterle in pratica. 

Gli scandali che hanno coinvolto società di certificazione dei bilanci agli inizi del nuovo Millennio hanno ulteriormente scosso la reputazione della professione. In Italia la pessima fama del consulente è stata spesso imputata al suo rapporto con la politica e l’Amministrazione Pubblica, tanto che il termine talvolta si confonde con quello di faccendiere. All’estremo opposto troviamo invece chi considera la consulenza di direzione il custode della cultura manageriale. Un giudizio equilibrato è difficile formularlo proprio per il peso esercitato dalla tradizione del professionalismo e per l’importanza che al suo interno riveste il capitale simbolico. Le nuove professioni non ci hanno guadagnato dal venir associate all’archetipo del consulente di direzione, che nell’immaginario collettivo è un uomo di successo dagli onorari favolosi per prestazioni da ciarlatano. E’ possibile riprendere uno sguardo corretto sulla consulenza – spesso strumento di effettivo supporto nelle scelte strategiche di un’impresa o di una Pubblica Amministrazione - solo spogliandosi completamente da un sistema di pensiero condizionato dall’ideologia del professionalismo.
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Surrogati d’identità
L’ideologia del professionalismo, pur sottoposta a critiche demolitorie, è dura a morire e si ripresenta con gli stessi abiti consunti e pieni di rattoppi nei periodi di crisi economica, sociale e politica dei ceti che ne sono portatori. Ma oggi, nel periodo post-industriale, c’è qualcosa di più che può spiegare la sua persistenza anche nei momenti di congiuntura favorevole, come sono stati, in Italia, gli Anni Ottanta e Novanta, quelli, per intenderci, che hanno visto il diffondersi delle nuove professioni. Ed è singolare che il professionalismo sia tornato in auge mentre proseguiva in maniera accelerata la frammentazione e l’implosione dei ceti medi, si stava affermando quindi una tendenza inversa rispetto a quella che Bledstein ed altri hanno osservato nell’America Mid-Victorian. Se allora la cultura del professionalismo ha cementato le varie componenti della “classe unica”, nei decenni più recenti ha potuto riproporsi in un panorama di crescente disgregazione e frammentazione, galleggiando come una sostanza che non si scioglie nella “società liquida”, di cui parla Zygmunt Bauman.

 La ragione principale sta forse nella perdita di forza “identitaria” del lavoro. Un fenomeno cui sono stati dedicati molti studi ma che ciascuno di noi può osservare nella vita di ogni giorno. Le persone continuano a definirsi attraverso l’attività che svolgono ma per pura convenzione, per ragioni di etichetta quasi, nel loro intimo però cercano agganci più solidi, più convincenti per caratterizzare la loro personalità. Nella crisi d’identità spesso si confondono questi due piani, quello dell’identità come maschera di una commedia che recitiamo tutti quanti e che indossiamo nel balletto dei rapporti superficiali quotidiani, obbligati a rispettare certe convenzioni, e quello dell’identità intesa come configurazione dell’unicità della persona. Nella prima forma d’identità possiamo recitare o usare le credenziali, nella seconda dobbiamo crederci davvero ed è questa che nella società odierna tende ad indebolirsi sempre più, provocando per reazione di autodifesa o la moltiplicazione delle maschere o il travestimento. Nella società italiana dove le scelte di politica industriale hanno portato l’abbigliamento e la moda ad occupare una posizione costituiva dell’identità nazionale, la costruzione della personalità attraverso i vestiti e gli accessori ha raggiunto limiti esasperati ed ha ridotto intere generazioni di giovani a manichini ambulanti, privi di anima. 

Non è quindi soltanto il lavoro ad aver perduto la sua forza identitaria, sia perché è un valore sociale in disuso, sia perché la precarizzazione lo ha logorato nei suoi significati esistenziali, ma è la formazione della personalità in quanto tale che è resa sempre più difficile e complessa. In un quadro di perenne competizione, all’interno del mondo del lavoro crea identità la carriera, semmai, non la funzione. Chi è tagliato fuori da un percorso di carriera, rifiuta una definizione di se stesso attraverso il lavoro. Qui s’innesta la forza ideologica del professionalismo. Benché, come abbiamo visto, esso stesso sia stato strutturato secondo curricula istituzionalizzati, conserva una sua presa sull’individuo attraverso la sua componente moralistica e attraverso il richiamo all’ordine simbolico della competenza esclusiva. Sicché coloro che esercitano una di quelle che sono chiamate “professioni intellettuali” non solo indossano la maschera del recitare quotidiano ma ci credono. Non stupisce quindi che le “nuove” professioni siano state contagiate dall’ideologia del professionalismo: cercavano una forma di cittadinanza e di riconoscimento per passare dallo stato di outsider a quello di insider, la via breve era quella della vecchia ideologia. Poi si sono accorte che restavano lo stesso fuori dalla porta, ma questa è un’altra storia.

Vale la pena invece riprendere il discorso della sempre più difficile formazione della personalità e dell’identità attraverso l’occupazione, perché presenta aspetti che s’intrecciamo fortemente con il problema della coalizione.

L’incertezza odierna è un potente fattore di individualizzazione; essa divide anziché unire … l’idea di “interessi comuni” diventa sempre più nebulosa e in definitiva incomprensibile. Paure, ansie e risentimenti sono fatti in modo tale da dover esser sopportati in solitudine, non si sommano, non si coagulano in una “causa comune”, non possiedono un “destinatario naturale”. Tutto ciò fa dell’atteggiamento solidaristico una tattica non più razionale e suggerisce una strategia di vita del tutto diversa da quella che condusse un tempo alla nascita delle organizzazioni difensive e militanti della classe lavoratrice. 

Questa visione rassegnata di Bauman non è del tutto convincente. L’insicurezza non è soltanto un prodotto di rapporti di lavoro precari. Qui c’è il solito retaggio paralizzante del modello del lavoro subordinato, inteso come storicamente “stabile”. L’insicurezza è dovuta alla difficile formazione della personalità, provocata a sua volta dalla crescente invasione di modelli di persona, di comportamento, di pensiero, di espressione, che i media trasmettono al sistema percettivo dell’essere umano in età infantile e adolescenziale. Ogni immagine è un’ipotesi di personalità possibile, spesso le immagini o le parole trasmettono modelli di personalità irraggiungibili. Entrano a fiumi nelle catene dell’apprendimento fattori inquinanti, scorie d’ogni tipo prima che l’educazione possa fornire filtri protettivi. 

Dell’educazione qui si è parlato solo per i suoi gradi elevati perché il rapporto tra formazione delle conoscenze specializzate e professioni intellettuali è vincolante. Le critiche all’iperspecializzazione sono cominciate già prima di Weber ma il problema ormai, ce ne accorgiamo ogni giorno, non è quello della difficile comprensione dei linguaggi specialistici e della pretesa di status delle élites professionali, e nemmeno quello della discrasia tra i corsi che l’Università offre e le competenze che il mercato richiede. Il dramma oggi non è l’Università specialistica, che bene o male funziona, è la gente che non sa parlare e scrivere in italiano. E’ sempre più incerta e fragile quella che Drucker chiamava l’allgemeine Bildung. Si è capaci di produrre competenze specialistiche, che possono assumere la veste di identità professionali, ma si è sempre meno capaci di produrre personalità, quell’insieme di capacità che consentono di organizzare le conoscenze e le passioni, i saperi e le emozioni, in un ordine mentale che permette all’individuo di controllare, filtrare e incanalare il flusso di eventi informativi che gli piovono addosso ma soprattutto gli consentono di agire su percorsi che lui stesso si è scelto. 

Questa è la condizione, la possiamo chiamare dote o talento, di cui necessita il lavoratore indipendente delle nuove professioni, è la capacità di muoversi su tutti i terreni, ma anche di navigare o di volare, di transitare da un mercato della competenza a un altro, da un sistema di relazioni a un altro. Non ha bisogno di un’identità professionale, ha bisogno di una personalità che gli conferisca sicurezza in se stesso e quindi disponibilità al rischio, può tranquillamente disfarsi dell’ideologia del professionalismo (deve sapere cos’è però). Non è un paradosso affermare che per un nostro lavoratore della conoscenza freelance padroneggiare la lingua italiana scritta e parlata è il requisito più importante, perché significa che ha un’idea di base di cosa sia il tempo e lo spazio, cioè ha introiettato la storia e la geografia. Significa che sa esprimersi in maniera chiara e in maniera ambigua, ha un’idea di che sono le relazioni sociali, di dove puoi essere schietto e frontale e di dove ti conviene stare in guardia.

L’italiano è una lingua che offre meravigliose risorse di ambiguità, non per caso il nostro è il Paese del trasformismo, delle leggi che vogliono dire una cosa e il suo opposto. Ma l’ambiguità è anche finezza, come una musica che procede per quarti di tono, e quando il punto dove si vuol arrivare è chiaro, quando la personalità è formata in modo da sapere con chiarezza il momento che può parlare frontale, perentorio, sicuro della propria competenza, l’ambiguità diventa solo un mimetismo per poter arrivare là dove altri potrebbero impedirti di arrivare o potrebbero aspettarti. E’ un modo per preparare la sorpresa del pensiero originale. 

Tradurre allgemeine Bildung con “cultura generale” è restrittivo, il termine intende la conoscenza dei “fondamentali”, in modo da riconoscere l’essenziale dal superfluo, in un quadro mentale dove i riferimenti di tempo e le gerarchie dei dati sono chiari ed i linguaggi degli insiemi di informazioni riconoscibili. Italiano, storia e geografia, sembra una battuta di snobismo intellettuale ma com’è possibile formare una personalità senza sapere come si legge un libro di storia, senza saper riconoscere la dinamica e la genesi della condizione in cui vivi? Farsi spiegare passivamente da altri quello che sei o com’è nato il mondo in cui vivi è come accettare che padre e madre vengano conferiti d’ufficio. Solo una forte personalità produce frammenti d’idee originali, offre al mercato quella che comunemente si chiama “innovazione”. Questo è il campo non esclusivo ma specifico dei lavoratori della conoscenza indipendenti. 

Personalità e scrittura
Ma che significa “scrivere in italiano”? Maestri di questa pratica ci hanno permesso di entrare nel loro laboratorio e di osservare da vicino certi arnesi del mestiere, certo, si trattava in gran parte di arte letteraria ma la redazione di testi di riflessione o di esposizione per loro non è mai stato esercizio diverso per quanto riguarda la qualità della scrittura, gli ostacoli ed i problemi restano gli stessi. Sono le sorgenti dell’espressione il grande mistero. Un giorno Luigi Meneghello alla domanda su quale fosse per lui il rapporto tra dialetto e lingua nella scrittura e se ritenesse che il dialetto fosse un patrimonio espressivo in via di estinzione, così rispondeva:

per me ha senso l’assioma che morendo una lingua muore una cultura, ma è certamente vero anche l’opposto, cioé che il mondo artigiano e contadino è stato estinto dagli sviluppi della nostra società, della nostra civiltà: ed è ovvio che mantenere vivo il dialetto al di fuori della società che lo parlava, lo nutriva, non avrebbe senso. Quanto lunghi saranno i tempi perché il dialetto scompaia del tutto questo resta da vedersi. Ma si può presumere che prima di scomparire il dialetto potrà influenzare anche profondamente lo sviluppo dell’italiano letterario; attraverso i meccanismi non troppo diversi dai ‘trasporti’ che vi ho illustrato 

L’industrializzazione, il fordismo avevano portato alla svalorizzazione di un patrimonio linguistico che troppo spesso l’italiano letterario aveva ignorato, se non represso. Rispondendo al suo interlocutore nel 1986, Meneghello non immaginava che dieci anni dopo “il progresso della civiltà” avrebbe avvicinato il rischio di una seconda estinzione, quella delle lingue in quanto tali. Il postfordismo e l’uso delle tecniche comunicative a distanza potranno portare a questa scomparsa? Il modo di “scrivere all’istante”, “rispondere all’istante”, l’introduzione di stilemi e grafomi privi di un suono, leggibili attraverso una linguistica senza fonologia, la “perdita del malinteso”, come dice Gargani citando Baudelaire, la minaccia di una comunicazione che, giunta ai livelli estremi di connettività tra soggetti, diventi mutismo – sono temi che appassionano i filosofi dal momento in cui si è instaurato il dominio di Internet. Sono i problemi ai quali è maggiormente sensibile chi ogni giorno lavora con il web e ne riconosce le insidie, non sono questi problemi riserva di filosofi ma normalità di lavoratori della conoscenza. 

Le lingue del resto sono state tra i vari segni della civiltà quelle più esposte alla minaccia di repressione, di interdizione. Quante volte una lingua è stata “salvata”! Oggi questa minaccia ha cambiato tattica, ciò che uccide le lingue e le culture ad esse associate non è il divieto di parlarle o scriverle, è il potere monopolistico di un idioma. Ma proprio questo ne esalta il prezioso retaggio. Italiano, storia e geografia non solo per rendere solido un capitale umano, si diceva, ma per formare una personalità, un carattere. Insistendo, non si tratta di luoghi comuni o di snobismi provocatori, qui si  vuol rivisitare tematiche che sono state alla base dell’ideologia del professionalismo e che ritroviamo negli scritti dei suoi padri fondatori, come, ancora una volta con acutezza, ci insegna Bledstein. Uno dei principi fondamentali, come abbiamo ricordato in precedenza, era la dedizione, la spinta etica al bene pubblico, considerata forse più importante della competenza specialistica, ma ben presto si disse che prima ancora era indispensabile il character, “il segno distintivo, la somma di qualità che distinguono un individuo dall’altro” e che potrebbe essere proprio quel che abbiamo chiamato la personalità. 

Giustamente Bledstein osserva che questo “carattere” era sì inteso come immagine di se stesso, fiducia in se stesso, disposizione d’animo dell’individuo ad affrontare tutte le situazioni, ma solo all’interno dei parametri della carriera: devi avere character nel quadro delle career pattern. Il termine career in origine indica la pista di gara, il “carattere” quindi, sin dalle origini del professionalismo moderno, allude a “una personalità competitiva”. Character, avere una personalità. Corre veloce il pensiero al libro di Richard Sennett L’uomo flessibile, che ha avuto tanta eco, anche in Italia. Suonava il suo sottotitolo, nell’edizione originale, The corrosion of character, per dire il deterioramento della personalità provocato dalla condizione di perenne instabilità del lavoratore moderno. Nel nostro discorso si vuol andare oltre, la difficile formazione di una personalità è generata da qualcosa di più complesso del precariato lavorativo o dell’incertezza professionale, ci sembra che abbia piuttosto a che fare con la percezione del mondo e con l’adattamento all’ambiente esterno. Il modo di produzione postfordista e la globalizzazione hanno creato una  nuova antropologia umana, la diffusione dell’informatica e l’utilizzo del personal computer hanno introdotto nuovi parametri epistemologici, modificando radicalmente le dinamiche dell’apprendimento e quindi del passaggio dallo stato infantile allo stato adulto. 

L’informatica ha consentito a giovanissimi di padroneggiare i linguaggi e le tecniche, mettendoli in grado di trasformarsi, per esempio, in hacker capaci di creare grosse difficoltà o addirittura paralizzare sofisticati sistemi di apparati militari. E nessuno ha insegnato loro come si fa, lo hanno imparato da soli. La rivoluzione del computer segna uno spartiacque nella storia perché ha posto fine al sistema millenario delle civiltà umane che prevedevano in parallelo alla crescita naturale dell’uomo un progresso graduale di apprendimento. L’età scolare era una fase ben precisa della crescita fisiologica. Lo hacker bambino è il simbolo di questo passaggio di civiltà. Lui senza un percorso di apprendimento, senza una scuola, già irrompe con potenza devastante nel mondo degli adulti, un mondo che quanto più è computerizzato tanto più sembra accessibile a chi non ha compiuto o non ha ancora compiuto o non ha bisogno di compiere un curriculum di formazione. Se la principale capacità di adattamento all’ambiente esterno è data dalla conoscenza dei linguaggi informatici e tutta la cultura della “formazione generale” risulta obsoleta o semplicemente non utile a consentire la sopravvivenza dell’individuo, è chiaro che la stessa nozione di personalità individuale acquista un nuovo significato. 

Forse quella nozione di personalità che abbiamo prima delineato appartiene anch’essa al mondo di ieri. La corrosione, il deterioramento della personalità provocato dall’instabilità lavorativa, si chiamano così perché lo sguardo di Sennett, come il nostro, è datato? Ha forse bisogno di conoscere la storia l’hacker bambino? No, di certo, ma non ha bisogno nemmeno di relazioni, il suo mondo è lì dentro lo schermo e lui lo riconosce non certo attraverso la carta geografica ma mediante il linguaggio dei simboli. I casi clinici di ragazzi che non escono più di casa e stanno tutto il giorno chiusi in stanza davanti al computer dovrebbero farci capire che l’androide è dietro l’angolo. Ma non è detto che finisca così, solo un atteggiamento di sciocco snobismo parla con apparente rassegnazione di “barbarie incombente”. 

Tutti i sistemi totalizzanti tendono a ridurre l’umanità a un insieme di corpi senz’anima, senza personalità, il capitalismo per primo e il biocapitalismo quasi ci riesce. Il problema sta nel rifiuto di subire, di sottomettersi, è l’eterno problema della libertà dell’individuo, qui sta il senso del discorso sulla coalizione. Ma la libertà non è scindibile dalla conoscenza e pertanto l’affermazione che l’informatica ha creato una diversa epistemologia significa che ha modificato i parametri del processo conoscitivo liberandolo in parte dalla dipendenza dell’insegnamento, del lavaggio del cervello, e dalla dipendenza dei procacciatori/manipolatori d’informazioni, aprendo lo spazio ad una, seppur parziale e in permanente tensione, autonomia dell’individuo. Parlando il linguaggio dei simboli ha ridotto lo scarto tra la parola e i suoi effetti, il gesto e i suoi riflessi. Ha abbassato la statura dell’autorità, le ha tolto il piedestallo, contribuendo in questo senso alla de-professionalizzazione.

Le ‘nuove’ non-professioni
La nascita e lo sviluppo delle “nuove” professioni avviene proprio nel periodo in cui questo passaggio di civiltà comincia a compiersi. Non hanno un percorso di formazione precostituito, non possiedono conoscenze alle quali corrisponde un ambito di giurisdizione ben definito, vivono di relazioni più che di competenze, la loro autorità è sancita dal mercato non dalle credenziali, a loro non servono i paludamenti del professionalismo, anzi sono d’impaccio. Ma il termine generico di “nuove professioni” comprende anche alcune antiche esercitate in maniera nuova o, per meglio dire, svolte in contesti di mercato talmente diversi da quelli che in origine le aveva viste nascere, che possono essere considerate “nuove”. E’ la forma sociale dell’esercizio quella che fa la differenza non è la specializzazione. 

Qualcuno ha detto: non sono delle professioni e chi le esercita non ha il diritto di chiamarsi professionista. Con malcelato disprezzo ne parla uno che pure è stato un impietoso testimone della decadenza della professione medica negli Stati Uniti

“specialisti che in realtà sono dei meri tecnici…servono i loro padroni come freelancer o hired guns (tanto per usare sia il termine antico che quello moderno per dire “mercenario”) le loro lealtà si collocano sullo steso piano di quelli che li pagano. Accettano le scelte dei loro padroni e li servono lealmente come meglio possono. Alla luce delle loro conoscenze specialistiche questi servants possono consigliare i loro padroni di qualificare o modificare le loro scelte ma non pretendono di avere il diritto di essere loro a scegliere per i loro padroni, di essere indipendenti da quelli o addirittura di violare i desideri di quelli. Ma è proprio questa l’indipendenza che il professionalismo reclama per sé” 

Forse qualcuno potrebbe sentirsi offeso ad essere definito “un mercenario”, ma la frase rispecchia semplicemente la mentalità elitaria, l’atteggiamento di esclusione sociale, che sono tratti caratteristici della cultura del professionalismo, su questo concordano tutti i grandi studiosi del fenomeno, lo stesso Freidson, Abbott, la Magali Larson ed altri. Chi ha scelto il lavoro autonomo delle nuove professioni negli Anni Settanta, non solo in Italia, lo ha fatto invece portandosi dietro una mentalità opposta, quella dell’egualitarismo. I neue Selbständige tedeschi erano fortemente influenzati dalle culture e dalle pratiche “alternative”, da orientamenti anticapitalistici, da un desiderio di fuga dalle città per immigrare in territori agricoli. Quando un informatico sceglie la carriera del freelance può averlo fatto dopo un’esperienza di hacker. 

Come ci ricorda Manuel Castells, forse il maggiore teorico della società dell’informazione, della network society, il termine hacker non indica un sabotatore, indica uno che rifiuta il sistema proprietario, uno che considera la condivisione della conoscenza e dell’esperienza il valore più elevato, il principio etico al quale deve tenere fede l’informatico che vive del suo lavoro.  E’ un atteggiamento opposto a quello della competenza esclusiva, proprio dell’ideologia elitaria del professionalismo. Grazie a questo atteggiamento anarchico-libertario si è sviluppato Internet. In virtù di una mentalità che è l’opposto di quella del professionalismo è nato il computer. Il personal computer è stato un’invenzione casuale della contro-cultura informatica e lo sviluppo migliore del software lo si è avuto con i sistemi open source, che sono stati prodotti al di fuori del mondo delle grandi imprese, nelle università e nelle iniziative lanciate da freelance.

L’ideologia del professionalismo è conservatrice, non stimola l’innovazione. Il lavoratore della conoscenza moderno ha orizzonti più vasti, più aperti di quelli della professione. Taglia corto Keith Macdonald in un testo del 1995: “la conoscenza è un‘opportunità per procurarsi un reddito”, scrive. Se siamo d’accordo con lui, è una perdita di tempo interessarsi alla disputa se il lavoratore autonomo con Partita Iva sia un professionista o meno, abbia o meno il diritto di presentare queste credenziali. E’ di secondaria importanza decidere se considerarlo un mercenario o un gentiluomo. Rimettiamo i piedi per terra, torniamo alla sua condizione sociale, a quella che già trent’anni fa era stata messa a nudo da chi aveva colto sul nascere il passaggio di civiltà. 

Era evidente dalla fine degli Anni Settanta che la tendenza era quella definita da Magali Sarfatti Larson: “la proletarizzazione” dei laureati. Ragionando al giorno d’oggi però, la constatazione che il fenomeno dell’impoverimento del lavoro intellettuale si è verificato effettivamente, come trent’anni fa era stato previsto, non basta. In questo percorso sono cambiate molte cose, l’impoverimento è avvenuto anche per dinamiche che non erano state previste, mentalità consolidate sono state spazzate via e sostituite da altre. Una tendenza storica non è mai lineare, si afferma per contraddizioni e ripiegamenti, si manifesta per varianti che ne arricchiscono la complessità.

Ragionando oggi, trent’anni dopo quei primi segnali di allarme sull’impoverimento del lavoro intellettuale, vale la pena mettere in rilievo come le persone abbiano cercato di resistervi o con artifici di sopravvivenza o, soprattutto, con una progressiva maggiore capacità di amministrazione delle proprie conoscenze e un passaggio da forme di vita puramente individualistiche a trame di relazioni che funzionano sia da strumenti di protezione sia da proposta di nuovi servizi. Il mercato per il lavoratore autonomo è in parte quello che lui stesso riesce a creare, a inventare, a inventarsi. Ma se così è, se la forma “mercato” è indissolubile dal riconoscimento sociale, significa anche che una delle cause della mancanza di reazione all’impoverimento della middle class può essere dovuta al fatto che esercitare un’attività di elevata reputazione o visibilità offre una compensazione alle paghe da fame o agli onorari vergognosi. Forse questa è la vera trappola che ingabbia i lavoratori indipendenti, essere vincolati ai valori del riconoscimento sociale tanto quanto la classe operaia è stata vincolata ai valori del consumismo. Dunque occorre disattivare una serie di trappole ideologiche se si vuol inaugurare un percorso di coalizione. 

Ha ragione Federico Chicchi, uno che ha studiato a fondo il problema dell’identità in rapporto al lavoro, a scrivere: 

sembra svolgere una funzione rilevante, la diffusione di una cultura del lavoro che fa della performance individuale e della capacità di competere efficacemente sui mercati emergenti degli elementi imprescindibili dell’alto riconoscimento sociale. Il lavoro diventa fonte di attribuzione di elevato status quando è visto come attività rischiosa, creativa e di responsabilità. L’atteggiamento che tende ad attribuire rispetto e stima a chi accetta di intraprendere percorsi professionali rischiosi e non istituzionalmente protetti, sembra far parte di una più generale “cultura del rischio” tipica dei contesti economici post-fordisti (…) la ‘cultura del rischio’ è cioè una cultura individualistica, meritocratica che attribuisce valore sociale all’attore che agisce senza pianificare nei dettagli la sua strategia, che aggredisce il mercato piuttosto che subirne gli effetti, che affronta con risolutezza ed autonomia le condizioni d’incertezza e variabilità della società post-fordista (…) il saper rischiare, quindi, diventa il principale criterio di valorizzazione sociale del postfordismo. Rischiare significa, infatti, stare dentro, non rischiare significa stare inesorabilmente fuori.” 

Ma questa è ancora una volta, come in Bauman o in Sennett, solo una faccia della medaglia, è una visione che rischia di rimanere circoscritta dentro la forma “mercato”. Il rischio vero non è quello di affrontare il mercato. Il vero rischio è “pensare altrimenti”, è rifiutare la mentalità corrente, l’imitazione delle pratiche del leader di mercato. Il vero rischio è innovare, dotarsi di un bagaglio conoscitivo sui generis. C’è un bellissimo termine tedesco Querdenker, uno che pensa di traverso, e dunque che si mette di traverso. E l’innovazione può consistere proprio nel saper ridurre l’imprevedibilità dell’azione rischiosa. Il rischio del lavoratore cognitivo che esercita un’attività indipendente deve essere sempre un rischio calcolato, non può essere mai assoluto, un salto nel vuoto, una scommessa, deve contenere in sé un criterio di relazione. Non si pensa “altrimenti” per rompere il legame con il committente ma per vincolarlo a condizioni più favorevoli, non si pensa “altrimenti” per stare peggio ma per sentirsi maggiormente padrone di un rapporto di lavoro, per quanto asimmetrico possa essere il rapporto di forza economico. Per calcolare un rischio basta il proprio talento, ma per tutelarsi dal rischio c’è solo la coalizione con i propri simili.

Conoscenza tacita
Qualche anno fa, in un saggio sulla rivista dell’Associazione Medica Americana, due autori, Epstein e Hundert, rilevavano in maniera molto convincente che la competenza professionale si definisce più come conoscenza tacita che come conoscenza esplicita. Riprendendo le tesi di Michael Polany, scrivevano: 

la conoscenza tacita è quel qualcosa che conosciamo ma non sappiamo spiegare bene, che comprende le regole informali dell’euristica, l’intuizione e il contesto in cui si colloca l’atto della conoscenza

La competenza è un abito mentale, scrivevano, riferendosi in particolare alla pratica medica. Ma questa idea, competence is a habit,  possiamo riprenderla ed applicarla a tutte le professioni, in particolare a quelle “nuove”, che sono in parte prive di una certificazione fornita da un percorso di studi o da un titolo di studio specifico e prive di regolamentazioni all’accesso. La frase che spesso viene ripetuta in questi casi, “la competenza è una questione di esperienza”, oppure “solo praticando un certo mestiere lo si impara”, descrive con troppa superficialità il complesso formarsi in un professionista delle conoscenze che gli consentono di esercitare il suo mestiere. Il concetto invece di “conoscenza tacita” va molto più a fondo perché indica quell’insieme di elementi teorici, emotivi, esperienziali, tecnici, morali, comportamentali, relazionali che rendono non formalizzabile, non riproducibile e quindi difficilmente trasmissibile una competenza. E’ la forma propria del “segreto del mestiere” nel lavoro di conoscenza professionale moderno. 

La conoscenza tacita è una forma di sviluppo dell’identità, di crescita della personalità che si prolunga tutta la vita, è il vero lifelong learning ma presuppone un abito mentale e una disposizione  d’animo particolari, cioè prontezza ad assorbire elementi di conoscenza, curiosità ed una fondamentale umiltà di fronte alle cose e alle persone. Nell’universo dei lavoratori della conoscenza allignano e oggi, purtroppo, proliferano, tipi umani e abiti mentali con un atteggiamento esattamente opposto, quelli che ritengono la conoscenza e la competenza un processo unidirezionale, che credono il loro processo di apprendimento concluso con l’atto formale del titolo di studio e dell’accreditamento all’esercizio della professione e quindi hanno una relazione con altri, con utenti dei loro servizi, puramente gerarchica. Sono le persone che ti parlano ma non ti vedono anche se stai sotto il loro naso, individui repellenti e pericolosi se esercitano mestieri come il docente o il medico ma esistono solo nell’ambito del lavoro di conoscenza, in quello del lavoro manuale non sono immaginabili. Perché sono queste le persone prive di conoscenza tacita? Perché nel loro stile di comportamento la conoscenza deve essere sempre un attrezzo esibito, agitato davanti all’interlocutore come un bastone davanti al cane, strumento di sottomissione dell’altro, arroganza. 

Questa la ragione per cui l’arroganza del knowledge worker si accompagna sempre all’ignoranza, perché è connaturata a un abito mentale che rifiuta la conoscenza tacita – possibile tecnicamente solo con l’osservazione attenta e curiosa dell’altro, affettivamente solo con un fondo di adolescenziale freschezza. Il moltiplicarsi di tipi umani caratterizzati da questo abito mentale nella società della conoscenza contemporanea è causa ed effetto della svalorizzazione della competenza. Essi rappresentano la dimostrazione al contrario che l’assioma “la competenza è un abito mentale” corrisponde al vero. Così come la conoscenza tacita è quel qualcosa che sappiamo ma non siamo in grado di spiegare, così il fenomeno del dilagare di tipi umani e di abiti mentali dove arroganza, presunzione e ignoranza/incompetenza vanno a braccetto, è difficile da descrivere con il linguaggio della disciplina sociologica. Non esistono ricerche empiriche, studi di caso, su questo fenomeno che incontriamo ogni giorno e che forma una delle componenti essenziali d’invivibilità dell’Italia di oggi. Dovessimo effettuare su Internet una ricerca di letteratura sull’argomento, che parola-chiave potremmo inserire nella ricerca? Eppure ogni lettore di questo libro ne avrà incontrato di simili tipi umani e forse avrà notato anche lui che sono in pericoloso aumento, contribuendo in tal modo al degrado del costume. Ne vengono messi in gioco la reputazione sociale del lavoro cognitivo quanto il valore di mercato delle competenze. Ne viene umiliata la dignità del linguaggio, della scrittura. E’ ancora Meneghello a descriverne lo stile e a renderceli inconfondibili

Ciò che dava noia non era l’oscurità, ma la falsa oscurità, la finzione del difficile, del raffinato, dell’insolito, del profondo. Mi sentivo offeso in uno dei miei sentimenti più intimi. Mi pareva che praticare quel tipo di prosa abitualmente e per mestiere (come alcuni facevano) non sia un modo disonesto di scrivere, ma un modo disonesto di vivere (…) per la gente di cui parlo, pareva che valesse la regola: meno hai da dire, più banale e miserevole è la roba che hai da dire, e più devi cercare di rendere oscuro, contorto, allusivo, involuto il modo in cui la dici 

Se la competenza è questione di abito mentale il valore del titolo di studio o di altri certificati di accreditamento viene ridimensionato e torniamo al tema che abbiamo già toccato: professionalità e attitudine morale sono inscindibili. La domanda se siano più importanti il committment o la competenza tecnica non ha senso, perché la competenza è essa stessa in gran parte una questione di tipo relazionale, di modalità di comportamento verso terzi. E’ anche una questione di forma del pensiero, di struttura della percezione, che non può essere codificata in tecniche di apprendimento, anzi, potremmo definire la conoscenza tacita come quella che non è possibile formalizzare in precetti formativi, in percorsi di educazione, quindi conferisce all’individuo l’impronta di soggetto “unico” e irripetibile, al professionista l’impronta di chi è in grado di dare quel servizio che nessun altro sa dare.

Si torna sempre al problema che aveva assillato Weber e che continuerà a perseguitare coloro che in futuro si interesseranno a questo tema: la standardizzazione delle procedure e dei contenuti delle discipline, necessarie a far funzionare un’università di massa, non vanno proprio in direzione opposta? Trasformare la competenza in tecnica riproducibile non è un modo per uccidere quella progressione verso l’“unicità” di cui si è appena parlato? L’alta formazione non serve oggi proprio a formare linguaggi di comunità professionali separate ma estese orizzontalmente su tutto il pianeta? Nella comunità finanziaria, dove si parla ovunque lo stesso linguaggio, si presentano i problemi nello stesso modo, si valuta tutto in più o in meno, non è l’uniformità il requisito della massima professionalità? Più si riflette su questi problemi più ci si convince che il lavoro di conoscenza moderno vive all’interno di queste opposte forze, in una permanente tensione tra conoscenza tacita e procedure formalizzate. Ma non v’è dubbio che la prima rappresenta un vantaggio competitivo per il lavoratore indipendente, le altre sono d’obbligo in una professione esercitata all’interno di una grande azienda. Da qualunque punto di vista si confrontino, si scoprono sempre delle differenze sostanziali tra lavoro salariato e lavoro indipendente.  

Autorità, autorevolezza
Ma nel lavoro di conoscenza si pone un problema in più di quello del riconoscimento o della reputazione sociale, un problema più sottile e più intrigante, quello dell’autorevolezza. E qui le parole-chiave “successo”, “competizione”, “dedizione” non aiutano certo ad affrontare correttamente il problema. Potremmo dire che l’autorevolezza si distingue dall’autorità perché è un riconoscimento sociale ottenuto al di fuori di meccanismi di potere, l’autorità è in parte sinonimo di potere. Una persona è autorevole quando il suo pensiero e il modo in cui riesce ad esprimerlo acquistano rispetto e prestigio presso una comunità, l’autorevolezza è la pura essenza di una superiorità intellettuale che non si pone mai come sopraffatrice di altre opinioni ma come illuminazione di problematiche collettive i cui risvolti restano oscuri ai più, è per sua natura un servizio alla collettività, svincolato da necessità economiche, ambizioni di potere, interessi ideologici. Per Weber la scienza come insegnamento è un processo ascendente lungo i tre gradini della conoscenza tecnica, del metodo di pensiero, della chiarezza. 

L’autorevolezza ha sempre una componente di rivelazione, disvelamento, è un riconoscimento da parte della comunità che certe manifestazioni del pensiero sono illuminanti e dunque benefiche alla comunità medesima, che ricambia con il rispetto coloro da cui provengono questi bagliori di luce. Il personaggio autorevole è uno che aiuta gli altri a comprendere meglio se stessi e il mondo che li circonda, quanto maggiore è il disinteresse con cui dispensa la sua opera di chiarificazione, tanto maggiore è il prestigio e la credibilità di cui gode. Una persona autorevole difficilmente ha ottenuto il prestigio di cui gode tramite il successo e il denaro, non viene mai associata a qualcuno che compete sul mercato in maniera spietata per ottenere il prestigio di cui gode. Al tempo stesso però l’autorevolezza non s’identifica con l’autorità morale, in quanto può essere riferita a delle conoscenze tecniche, cioè a una specializzazione, quindi a una professione. Il pensiero delle donne si è esercitato brillantemente sul problema dell’autorevolezza. Il processo attraverso il quale si è cercato di mercificare l’autorevolezza è un’altra cosa ancora. Da sempre il potere, l’autorità (Obrigkeit) hanno cercato di imporre una forma di propria autorevolezza, si sono cinti dell’aureola dell’autorevolezza. Oggi lo sono la notorietà, la fama, la visibilità, oggi si cerca di far diventare autorevole anche un presentatore televisivo e le dinamiche sociali per cui questa manipolazione riesce fanno parte dei fenomeni più comuni della società di massa. Per questo è importante restituire al termine autorevolezza il suo significato di rivelazione, di illuminazione e riservare il riconoscimento di autorevolezza a processi di pensiero complessi, propri del lavoro intellettuale svolto come professione. Anche di un sito meteo che ci azzecca si può dire che è “autorevole”, ma è altra cosa. 

Perché abbiamo introdotto il tema dell’autorevolezza? Perché ci sembra presentare qualche discrasia rispetto alla filosofia meritocratica. Anche se oggi in Italia, nella misera condizione in cui è caduto questo Paese, s’invoca a ogni pie’ sospinto la meritocrazia come regola sociale capace di riportare la moralità e l’ordine là dove imperano corruzione e disordine, non ci sentiamo di affermare che una società meritocratica è il migliore dei mondi possibili. Per la semplice ragione che la meritocrazia presuppone la selezione e la selezione presuppone la competizione, quindi in ultima analisi una società meritocratica è una società dove la parola competition è scritta a lettere cubitali all’ingresso di ogni cittadina e di ogni villaggio, come nelle dittature si faceva con le frasi o i ritratti del Capo. 

La società meritocratica è un società di mercato, dopo quanto è accaduto nell’ultimo decennio è difficile credere che il mercato è capace di autoregolarsi, quindi una società meritocratica dovrebbe essere dotata di regole e di dettagliate procedure di selezione che le rendono operative. Le regole però presuppongono dei regolatori, perché siano rispettate, ma se la meritocrazia deve essere un principio universale che governa anche i microprocessi sociali sarebbe necessaria un’intera popolazione di regolatori indipendenti e salariati. Ci scappa da ridere. Pertanto la società meritocratica è una banale utopia, auspicarne l’avvento è come invocare l’apparizione della Madonna. Non solo nell’Italia di oggi, ma anche negli USA e nella Germania Anni Venti. E’ sempre il grande Weber, nello scritto che abbiamo più volte citato, a chiedersi: una volta che verranno introdotti i sistemi americani di valutazione nelle nostre Università, quali saranno i criteri ispiratori della selezione? La risposta è: il caso (Hasard). Queste parole suonano profetiche se pensiamo a ciò che accade oggi sui luoghi di lavoro, dove è proprio la banalizzazione dei principi meritocratici, la loro riduzione a sistemi di valutazione ridicoli e arbitrari, che pretendono di saper calcolare esattamente la prestazione del singolo e, click!, automaticamente il corrispettivo in termini di retribuzione e di riconoscimento di carriera, a governare le politiche del personale. E’ proprio la feticizzazione della società meritocratica quella che ai lavoratori dipendenti tocca subire. La mercificazione dell’autorevolezza va nella stessa direzione ma proprio per questo dobbiamo restituire a questa parola la dignità che le spetta. Il fatto che l’autorevolezza oggi abbia assunto la maschera caricaturale del “guru” ci dovrebbe indurre a prospettarci modelli di ben altra levatura. 

Ai giovani professionisti del lavoro intellettuale vorremmo raccomandare di perseguire il raggiungimento di una condizione di autorevolezza invece di perseguire obbiettivi di successo e notorietà. Ma forse non ce n’è bisogno, l’etica del successo con i tempi che corrono ha perduto di credibilità, oggi ha più ascolto un manuale di sopravvivenza. Ma alle origini, nel periodo di formazione dell’etica del professional, salariato o freelance che fosse, ed in particolare nel periodo che precede la Grande Crisi del 1929, così come negli Anni Ottanta e Novanta, l’immagine del mercato che veniva trasmessa sembrava tale da considerare il successo un obbiettivo alla portata di tutti. 

Transitare, spostarsi, scavalcare confini
(…)
Pochi si sono esercitati sul tema delle professioni quanto il prolifico professor Andrew J. Abbott. Il suo libro del 1988 The System of Professions. An Essay on the Division of Expert Labour è un classico. Conferma, a noi pare, molte delle argomentazioni che finora abbiamo tentato di esporre ed è particolarmente prezioso perché, a differenza degli autori finora chiamati in causa, prende in considerazione non solo le professioni liberali e le professioni per le quali esiste uno specifico percorso formativo ma bensì la galassia delle nuove professioni che sono emerse negli Anni Settanta e Ottanta. Per Abbott il requisito fondamentale perché una professione sia tale è quello di saper stabilire la sua “giurisdizione”, cioè l’ambito specifico di sua competenza. Ma a differenza di chi prima di lui aveva già individuato questo come un criterio distintivo e ne aveva tratto la conclusione che compito di un organismo di tutela della professione deve essere quello di difendere il suo perimetro di competenza, Abbott giustamente sottolinea che se c’è qualcosa che distingue l’epoca attuale dalle altre è il continuo sconfinamento delle professioni negli ambiti di competenza delle altre, come effetto dei processi di innovazione richiesti dal mercato. 

Da qui deriva “il sistema delle professioni” cioè un tessuto all’interno del quale ci sono continui aggiustamenti, continue ridefinizioni delle diverse giurisdizioni. Questa provvisorietà dei confini di competenza non solo non è dannosa ma è auspicabile, la “mobilità interprofessionale” è un fattore dinamico di progresso. Abbott quindi rovescia completamente la prospettiva di chi ritiene che i confini della professione debbano essere continuamente posti sotto sorveglianza e, per esempio, si debbano escogitare soprattutto sistemi per controllare gli accessi. Il mondo, il mercato, cambiano, si muovono ed il professionista si muove di conseguenza, può partire dall’esercizio di una professione e poi passare a quello di un’altra oppure, caso molto più frequente, parte da una professione, da una specializzazione, e poi questa si arricchisce di tali nuovi contenuti da diventare una professione diversa:

la struttura sociale delle professioni non è mai fissa…la loro natura è quella di una costante suddivisione sotto la pressione della domanda di mercato, della specializzazione e della competizione interprofessionale

Le professioni insomma subiscono una continua trasformazione al loro interno e questo offre al professionista più opportunità di sopravvivere e di avere successo, di inventarsi nuovi servizi o un nuovo modo per erogarli. Non solo, ma uno dei fenomeni più evidenti cui stiamo assistendo è quello del cumulo di diverse competenze professionali in una persona sola. “Devi saper fare molte più cose di quelle che ti chiedeva il mercato quando hai cominciato ad esercitare, vent’anni fa”.  Non è questa una frase che abbiamo sentito migliaia di volte pronunciata da un freelance? Il “sistema delle professioni” di Abbott è un sistema interdipendente, tanto più efficiente quanto più è elastico, la miopia è quella di chi invece vuole farne un sistema di rigidità. Ma, ammesso che si vogliano difendere queste rigidità, e che sia giusto che ogni professione difenda con i denti la sua giurisdizione, chi riesce a farlo in maniera effettiva, cioè facendo ricorso a vie legali (perché altro metodo efficiente non c’è)? Solo una professione che è organizzata sotto un’unica Associazione a livello nazionale, solo una situazione di monopolio consente un’efficace difesa della giurisdizione. 

Non è il caso delle professioni non tutelate da Ordini, le quali si distinguono (purtroppo) per un’estrema frammentazione della rappresentanza. Abbott però, ed è questo l’aspetto più interessante del suo discorso, non ritiene che la giurisdizione debba essere abbandonata alle forze del mercato e alle sue spinte e controspinte, anzi, tanto più una professione è forte (tanto più un professionista è sicuro di sè) quanto maggiore è la sua capacità di controllare una giurisdizione che si suppone si sia ormai dissolta, non solo, ma tanto più è viva (tanto più un professionista è competitivo) quanto più riesce ad incorporare nel suo set di conoscenze specifiche, che ne caratterizzano la specializzazione, altre conoscenze proprie di altre professioni. Un altro elemento d’interesse nell’analisi di Abbott è l’uso del termine expert labour, perché è molto più preciso del termine che spesso noi usiamo di “lavoro professionale di conoscenza”. In particolare il termine restituisce il senso di una condizione generalizzata e specifica dell’attività umana e non allude a uno status sociale. In effetti, a pronunciare le parole “medico”, “avvocato”, “architetto”, siamo inconsapevolmente portati a pensare una condizione di status sociale, non solo a una specializzazione professionale, si è sedimentato nei decenni il senso comune che queste professioni e altre di tipo tradizionale siano sinonimo di middle class. “Lavoro di expertise” suona invece come un lavoro, un lavoro di tanti, se serve a raggiungere o a mantenere uno status da ceto medio, questo è tutto da vedere. 

Uno status sociale in perenne equilibrio
Siamo arrivati a un punto importante del nostro discorso, il rapporto tra lavoro professionale e status sociale. Ed è qui che dobbiamo rovesciare completamente sia il discorso di Bledstein che il discorso degli Ehrenreich, versione 1977 (e magari recuperare quello di Barbara Ehrenreich, versione 2010). In questi autori e in tutta la letteratura sociologica del Novecento i professionals – siano essi indipendenti o salariati – sono considerati l’ossatura del ceto medio, il suo “zoccolo duro”. Il tema di fondo della ricerca sociologica è stato quello della “costituzione” in classi di diversi strati della popolazione. Oggi il tema principale è la “dissoluzione” delle classi e in particolare della classe che ha dato l’impronta allo stile di vita occidentale, la middle class. In mezzo c’è stata la colata di studi sul superamento del concetto di “classe”, sulla sua inapplicabilità alla realtà di oggi, caratterizzata da stili di vita uniformi che attraversano gruppi sociali con redditi molto differenti, sulla frammentazione della società in gruppi e sottogruppi, sulla complessità del presente, sull’eccessiva semplificazione delle teorie che suddividono la società in classi e in definitiva sul fatto che il marxismo è superato. 

Corollario d’obbligo di queste teorie la tesi che la classe operaia è finita, è defunta (ma per crepare deve prima essere esistita, no?). Di fronte a queste analisi che ci conducono per i meandri di microprocessi sociali d’interesse certo ma così tortuosi che alla fine non riusciamo più a capire in che città ci troviamo, a noi pare che la dissoluzione di una condizione di status che costituisce l’essenza dell’Occidente sia un macroprocesso di cui l’analisi sociologica e il comportamento civile possono tener conto senza disonore. La rilevanza epocale di questo macrofenomeno forse non è ancora giunta alla coscienza di tutti e uno dei punti d’osservazione migliori per valutarne le dimensioni è proprio quello delle professioni, in particolare delle professioni liberali tradizionali. L’expert labour esercitato da un freelance delle nuove professioni si sa che è sottoposto ai rischi del mercato e pertanto non può garantire a priori il raggiungimento, la conservazione o la perdita di un determinato status sociale. 

La professione liberale esercitata in forma indipendente, o perché viene in genere trasmessa per via ereditaria o perché è ritenuta nel senso comune un mercato protetto, è classificata come attività di scarse variazioni nella fortuna e nella sfortuna. Non è più così, anche per le ragioni che Abbott stesso adduce con il termine di “divisione del lavoro di expertise”, attribuendo al termine divisione lo stesso senso con il quale viene usata nella letteratura marxista, ossia di una ripartizione di compiti che è costitutiva di una struttura gerarchica (“an upper, truly professional group and a lower, subordinate one”) . Argomento questo da non sottovalutare perché la tesi comunemente accettata è invece che la ragione fondamentale del disagio occupazionale delle professioni liberali e quindi la discesa di molti giovani medici, avvocati e architetti nel limbo della precarietà e della povertà sarebbe dovuta esclusivamente ad un eccesso d’offerta, per cui ancora una volta il toccasana sarebbe il controllo degli accessi, regolamentando le iscrizioni universitarie. Ma già è così, in molti Paesi, eppure non è sufficiente a riequilibrare l’offerta a causa di diverse regolamentazioni sul numero chiuso in Paesi che formano un unico mercato (es. Germania e Austria), dunque le ragioni di un processo di “declassamento” – termine di uso comune nelle agenzie di lavoro interinale – debbono essere diverse e più complesse. 
(…)

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 Intervista riportata su www.intranetmanagement.it, il sito di Giacomo Mason.
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- David C. Leach sullo stesso numero del “Journal of American Medical Association”.




* Pubblichiamo, con il permesso degli autori, alcuni estratti dal secondo capitolo del volume “Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro”, Feltrinelli, Milano 2011.

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