Giuseppe Allegri
Cocowork al teatro Valle occupato di Roma, da sabato 24 novembre alle ore 17 a domenica 25 novembre. Appunti su un vociare che mi rimbalza in testa da
mesi, anni, dentro il confronto attivo con molte/i altre/i quintari-e
intorno alle questioni del lavoro (e della possibile emancipazione da
esso, si sarebbe detto in altri tempi...) in una perdurante epoca che
vi vuole impoverite, saccheggiati, precarizzate, di fatto incapaci di
pensarci altrimenti, dentro questo quadro depressivo che ci hanno
costruito addosso.
Le multi-attività liberamente scelte contro lo sfruttamento
della “disoccupazione attiva”
Dentro
la perdurante depressione economica, sociale e psichica dell'ultimo
lustro ci troviamo nella condizione più critica di quella
tentata e faticosamente praticata fuga
consapevole e rischiosa dalla subordinazione all'etica del lavoro,
del laborare,
«vacillare
sotto un carico gravoso»
(Gruppo Krisis, 2003) e della sua condizione esistenziale di
asservimento e minorità, sperimentata provando a valorizzare
le «eccedenze
cognitive»
(E. Rullani, 2004, p. 395) delle pratiche di sottrazione al comando
burocratico-baronale dentro le università e al dominio delle
rendite di posizione e delle corporazioni nella falsata e
fallimentare economia capitalistica della conoscenza.
Siamo in mezzo
al guado, sopraffatti dalla recessione civica e culturale:
«l’accumulazione
del capitale si effettua a mezzo di esclusione, di sfruttamento non
remunerato della vita, di “disoccupazione attiva”»
(C. Marazzi 2012). Siamo al ribaltamento esistenziale ed
antropologico della proposta di Disoccupazione
creativa
avanzata da Ivan Illich (2005 [1978]) nel cuore degli anni '70 del
Novecento, come via di fuga dalla schizofrenia del tardo-capitalismo,
recuperando in autodeterminazione, giustizia sociale, possibilità
di sperimentare nuovi modi di stare assieme e fare impresa, nella
società delle multi-attività, avrebbe detto André
Gorz. È «il governo del pieno impiego precario» (e
della suddetta disoccupazione attiva), cui si affianca la schiavitù
dell'«uomo indebitato»: «l’austerità, i
sacrifici, la produzione della figura soggettiva del debitore non
rappresentano un brutto momento da superare in vista di una “nuova
crescita”, ma tecnologie di potere, di cui solo l’autoritarismo,
che non ha più niente di “liberale”, può garantirne
la riproduzione» (M. Lazzarato 2012).
Qui
si giocano le “occasioni
costituenti della crisi”:
la necessità di imporre altre scelte per le politiche
pubbliche a livello statuale e continentale è solo un tassello
di una più ampia strategia costituente, in cui i soggetti
delle “nuove forme del lavoro e del non lavoro” pongono la
questione intergenerazionale di come realizzare pratiche di
autotutela: venti anni dopo siamo ancora a rivendicare una «Magna
Charta delle attività immateriali, saltuarie, servili»
(M. Bascetta – G. Bronzini, 1993) e di quelle indipendenti e
autonome; quindi un nuovo Welfare
a partire dal reddito
garantito di base,
come nuovo diritto fondamentale per rifiutare tutte le forme di
sfruttamento e subordinazione e affermare istanze di
autodeterminazione e indipendenza individuale, cooperazione sociale
e solidarietà collettiva [Basic Income Network – Italia (a
cura di) 2009]. Ma non solo...
Si
tratta anche e soprattutto di riappropriarsi
dei processi di produzione,
condivisione
e trasmissione dei saperi, delle conoscenze e del fare impresa:
l’auto-organizzazione sociale e la sua forza creativa, di nuove
forme del vivere associato e del produrre ricchezze,
oltre lo statalismo burocratizzato, parassitario e corrotto e
l’individualismo proprietario e corporativo, fondato su
inscalfibili rendite di posizione.
È
la domanda senza apparente risposta di come pensare l'indipendenza e
l'autodeterminazione di quelle singolarità escluse da
qualsiasi cittadinanza perché non inquadrate in un contratto
di lavoro standard, ma più spesso precarizzate, disoccupate,
sottoimpiegate, costrette nell'impresa autonoma fatiscente,
condannate alla solitudine, che diviene povertà e miseria nel
perdurare degli effetti, devastanti per le persone, dell'infinita
crisi depressiva del capitalismo finanziario. Rendendo per certi
versi tristemente veritiero quel quadro che Ulrich Beck [2000 (1999),
pp. 150-156] vedeva proporsi all'orizzonte del presente e futuro
d'Europa, nei «mille
mondi del lavoro precari»,
dove «precari
ad alta specializzazione, Working
Poor
e povertà localizzata»
sarebbero divenuti la società degli esclusi che avrebbe dovuto
organizzarsi per rivendicare un reddito di cittadinanza e trasformare
l'ordine esistente delle cose. Sono le vicine origini della
depauperizzazione di quello che abbiamo chiamato Quinto Stato, che
incontra l'impoverimento dellf forme tradizionali del lavoro e
dovremmo ora avere la forza di esercitare una potenza costituente
delle forze del lavoro vivo e depredato.
Saggiamente
rivoluzionari,
radicalmente
intraprendenti:
ci tocca di essere contemporaneamente radicali
nel rivendicare un nuovo Welfare
e
pragmatici
nell'inventarci nuove forme di impresa sociale
che si riprenda la ricchezza prodotta, per redistribuirla ai soggetti
saccheggiati dalla finanziarizzazione delle forme di vita e dal
dominio delle corporative rendite di posizione.
2.
I consorzi di cittadinanza attiva delle nuove coalizioni sociali.
Sono
le “ricchezze del possibile” che i lavoratori della conoscenza e
della cultura – indipendenti, autonomi, precarizzati – devono
provare a sperimentare nel senso di pragmatiche
coalizioni sociali,
che definiscano consorzi
di nuova cittadinanza attiva.
In questo senso le coalizioni sociali sono da intendersi come
piattaforme relazionali e operative dove valorizzare positivamente
«l'essenza
della cultura urbana, cioè la possibilità di agire
insieme senza dover essere necessariamente identici»
(R. Sennett, 2006 [1974], p. 316). Perciò questa politica
delle coalizioni sociali
deve avere la forza di attrarre nella propria orbita tutte le forme
dell'auto-organizzazione sociale che inventa pratiche di
affrancamento dai vincoli oppressivi del lungo trentennio
finanz-capitalista; mettendo insieme quei «ceti
medi senza futuro»
(S. Bologna, 2007),
con le nuove
forme di organizzazione del lavoro vivo,
per riprendere quel filo interrotto di sperimentazioni sociali fuori
dalla società salariale e dentro le sperimentazioni di buona
vita (Illich, Gorz, Touraine, Offe, tra gli altri) e che già
in questa passaggio di secolo avevano provato a immaginare
«alternative
sociali»
«dentro-contro-e-oltre»
la servitù
volontaria
del capitalismo finanziario globale (D. Graber, 2002 e J. Holloway
2012).
Le
coalizioni sociali possono essere pensate sia come occasioni per
mettere
in relazioni l'associazionismo civico e di promozione sociale
diffuso nei territori, con le forme
embrionali di protagonismo del lavoro autonomo e indipendente di
seconda e terza generazione del Quinto Stato;
quindi le sperimentazioni delle economie sociali, solidali e
collaborative, con le singolarità operanti nei circuiti
istituzionali ancora disponibili a pensare una fuoriuscita positiva
dai fallimenti della società salariale. Soprattutto un nuovo
modo di fare impresa territoriale,
di ripensamento
dei distretti produttivi del lavoro culturale e dell'economia della
conoscenza,
dentro l'urgenza di ridurre
i costi individuali e collettivi
e ottenere
reddito
attualmente sottratto da intermediari, corruzione, subordinazione
alle consorterie, autoreferenzialità del pauperistico
capitalismo italiano.
Coworking di nuova generazione? L'impresa rivoluzionaria degli
ateliers del lavoro vivo.
Spezzare
il circolo vizioso tra scelte dissennate di politiche pubbliche e
speculazioni economico-finanziarie – entrambe al servizio della
ristrutturazione capitalistica e della sua lotta di classe interna ed
esterna – può essere l'obiettivo di chi, nella società,
inventa
nuovi modi,
tempi
e luoghi di co-progettazione e co-working,
fare
impresa sociale,
riattivando
le filiere produttive del lavoro della conoscenza, senza intermediari
e con processi di autogoverno della produzione autonoma artistica,
della conoscenza e cultura,
avendo la capacità di immaginare nuove possibilità di
erogazione di servizi, gestione diversa dei tempi di vita, produzione
autonoma di Welfare,
etc.
Evidentemente
questi spazi divengono anche luoghi e momenti
dell'auto-organizzazione
delle nuove forme del lavoro della conoscenza,
innescando processi
di nuovo mutualismo tra pari,
cooperazione
sociale e produzione di ricchezze
per resistere dentro la crisi e prospettare nuove forme di economia
sociale, solidale e collaborativa. In ogni caso si devono immaginare
pratiche
di produzione di reddito che diano certezza economica alla comunità
di riferimento e potenza conflittuale da poter agire dentro la
trasformazione sociale,
per mettere in relazione distretti
di autoproduzione che provano a designare un'altra idea di città,
che sia la metropoli urbanizzata, piuttosto che i mille tra comuni e
province disseminate nel territorio.
È
una sfida che tiene insieme trasformazione economico-sociale e
federalismo dal basso di un nuovo civismo post-repubblicano, della
lontana tradizione italica dell'autorganizzazione delle cittadinanze,
tra usi
civici e
nuove
comunanze;
tra autogoverno e cooperazione sociale; tra nuova impresa e
redistribuzione delle ricchezze.
In
questo senso è forse possibile parlare di idee
e spazi di Coworking di nuova generazione,
per una nuova cittadinanza attiva, che scardina la solitudine
individuale ed istituzionale, rispetto all'imbarbarimento della
società e inventa nuova sussidiarietà orizzontale come
capacità sia di autonomia
sociale,
produzione
di ricchezza
dentro
la società, sia di trasformazione
istituzionale
e costituzionalizzazione dal basso delle sfere civili,
nel senso di nuove istituzioni comuni e di prossimità, che
allude anche a una nuova pratica politica, del diritto alla città.
Ci
aspetta un terreno inedito per la mentalità corporativa,
familista, conservatrice e timorosa di questo Paese: mettere
in dialogo settori della società,
professioni,
piccola
imprenditorialità
sempre più dissanguata, insieme con il vasto
mondo precarizzato dei Working
Poors
e dello sfruttamento quotidiano, in cambio di miseria: la barbarie di
lavorare in assenza di retribuzione.
Lo abbiamo già
detto: è questo il momento di condividere una nuova e
impensabile impresa, tanto più urgente, quanto improrogabile.
Essere lucidamente visionari per inventarsi quotidiane forme di vita
dignitosa e felice dentro l'incubo sociale che ci è dato in
sorte. La pretesa di trasformare città, vite, istituzioni a
partire da un atteggiamento pragmatico di invenzione sociale,
economica e istituzionale, per una nuova cultura imprenditoriale, si
sarebbe detto altrove, e per inedite forme di cittadinanza sociale.
Rendere
operativi dei dispositivi pratici di incontro tra esigenze
individuali e collettive; fare
letteralmente un'impresa rivoluzionaria:
realizzare degli spazi
di coprogettazione delle multi-attività
in cui le
coalizioni del lavoro vivo
(piccola
imprenditoria strozzata
e lavoratrici
e lavoratori poveri e saccheggiati)
affermano nuovi mondi possibili: qui e ora. Se non siamo noialtri del
Quinto Stato a farlo, chi lo farà per noi!?
Una sola grande
unione.
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