Questa è la realtà sulla quale riflette anche l’Istat che ieri ha diffuso una nuova rilevazione sui Neet, cioè i giovani che non studiano e non lavorano (Not in education, employment or training, in inglese). Oltre il 27% delle persone tra i 15 e i 34 anni sarebbero in questa condizione, sostiene l’Istituto Nazionale di Statistica. La percentuale corrisponde a 3,75 milioni, 300 mila in più rispetto al terzo trimestre del 2012 (quando erano 3,43 milioni). I soggetti più vulnerabili che non sono inseriti in percorsi di formazione, di lavoro o istruzione vivono a Sud dove i Neet toccano la quota record del 28,5% (era al 25,8 nel trimestre corrispondente dell’anno scorso). Due milioni e 10 mila persone (oltre la metà dei Neet nazionali) sono fuori dal perimetro ristretto della società del lavoro.
Non studiare, non lavorare (non guardo la Tv, il cinema ecc)
Per l’Istat questa condizione riguarda tanto i quindicenni, quanto i trentaquattrenni, praticamente una generazione con persone di età, bisogni e condizioni socio-economiche completamente diverse. Se si guarda agli under 29, cioè a coloro che fino ad oggi sono stati considerati ufficialmente «Neet», nel terzo trimestre del 2013 sono il 27,4% a fronte del 24,9% dello stesso periodo del 2012. A Sud coloro che sono fuori dai percorsi di cittadinanza sono il 36,2% (1,344 milioni su 2,564 milioni). I “giovani” tra 29 e 34 anni sarebbero 1,2 milioni, di cui 666 mila nel Mezzogiorno. Ben 1,5 milioni dei Neet nazionali, inoltre, hanno studiato fino al diploma di scuola media, mentre 1,8 milioni hanno la maturità e solo 437 mila possiedono una laurea, un dottorato o una specializzazione. Il Neet è in maggioranza di sesso femminile: le donne sono 2.112 milioni, mentre gli uomini sono 1.643 milioni.
Con quest’ultima rilevazione l’Istat ha cambiato il campione di riferimento dei giovani Neet in Italia. Fino a ieri ha considerati quelli fino ai 29 anni, il 27,4%, una percentuale che è tra le più alte in Europa. Aumentare il campione della rilevazione fino ai 34 anni è un’anomalia, soprattutto se si considera l’originaria funzione del concetto di «Neet», riservata agli adolescenti di 16–17 anni, come raccomandato dagli esperti che redassero nel 1999 un rapporto contro l’esclusione sociale per il governo laburista dell’epoca. Non è stato evidentemente così, visto che il termine viene oggi applicato in molti paesi europei fino ai 29 anni e fino ai 34 anni in Italia, Grecia o Bulgaria. Lo stesso avviene in Giappone o in Corea del Sud dove però «Neet» non viene usato per i «giovani» ma per persone escluse dal mercato del lavoro, che non sono sposate o rifiutano di entrare in società (si chiamano «Freeter»).
Cosa significa, davvero, "Neet"?
Più che il tasso di disoccupazione giovanile, che ha una sua regolarità stagionale e una sua oggettività, il «Neet» indica condizioni di esclusione molto diverse: il ragazzo che non studia né lavora, il classico disoccupato, il malato o il disabile, gli inattivi che cercano un lavoro all’altezza delle loro competenze, chi rifiuta di lavorare. In Italia c’è anche chi, per necessità o scelta, lavora al nero.È dunque possibile che una parte sostanziosa di questi 3,7 milioni di 15-34enni Neet italiani rientrino in queste o in altri sottogruppi che, in ogni caso, sono lo specchio di una società del precariato di massa, dove i processi di proletarizzazione sono aumentati visibilmente nell’ultimo anno, insieme a quelli legati alla pauperizzazione totale.Un uso così estensivo del «Neet» può indurre la politica a credere che la precarietà di un ultra-trentenne può essere affrontata con gli strumenti adatti ad un teenager, proprio come avviene in Italia dove il ministero dei Beni Culturali ha offerto a 500 laureati under 35 indennità da 416 euro al mese. O come presumibilmente accadrà per la cosiddetta «Garanzia giovani», il pilastro della battaglia del governo contro la disoccupazione giovanile. Ai neo-diplomati e ai neo-laureati under 29 potrebbero andare 225 euro mensili (il calcolo è dell’Isfol). La maggioranza di tutti gli altri non rientrano nei criteri del «decreto lavoro» di agosto per finanziare apprendistati o tirocini attraverso la decontribuzione fino a 650 euro alle imprese. (Per un'analisi leggi qui)
In questo si risolvono le politiche "attive" del lavoro di stampo neoliberista: ad un sussidio temporaneo alle aziende (più che ai singoli) e alla produzione di un lavoro non qualificato, povero, a cui non viene riconosciuto il lavoro semplicemente perché - nella logica del finanziamento a pioggia - i fondi da soli non bastano per stimolare una domanda di lavoro che non esiste. Nel mezzo resta il "Neet", una condizione - più che un soggetto - che fissa l'esclusione sociale in una serie di paradigmi oggettivi apparentemente insuperabili.
Modello giapponese per i "giovani" italiani
L'identità "Neet" è un'astrazione creata per definire la condizione del Quinto Stato, basata sull'intermittenza del lavoro e dei diritti. Viene usata per congelare milioni di persone in un'età sospesa tra l'adolescenza e l'età adulta. Se da un lato, come annotano gli esperti di Eurofond, è utile per impressionare l'opinione pubblica (si parla pur sempre di 4 milioni circa di persone che vivono nell'abbandono e nel rifiuto della "cittadinanza") e per convincere i governi a fare qualcosa, dall'altro lato inserire una simile quantità di persone in una categoria statistica molto composita serve a distinguere tra loro i "vincitori" e i "perdenti"
E' questo l'effetto che hanno avuto le politiche di "attivazione" al lavoro riservate ai "Neet" in Giappone. Il finanziamento di tirocini e apprendistato produce risultati economicamente irrilevanti. Tuttavia queste misure servono per creare un'economia "della speranza e della fiducia" dei giovani nel "futuro". Un "futuro" che, evidentemente, non dipende da loro, ma dalla durata degli incentivi che lo Stato regala alle imprese.
Da trent'anni in Giappone si è sviluppato il fenomeno degli Hikikomori, cioè di quelle persone (adolescenti e adulti) che rifiutano di partecipare a questo processo senza risultati. Con comportamenti di rifiuto, che producono anche patologie psichiche, molto violente contro la società e l'ordine "naturale" del discorso prodotto dall'economia neoliberale della speranza.
"Neet" conosce in questo modo un altro significato: l'allusione ad una condizione - che noi abbiamo definito come il "grado zero" del desiderio dell'autonomia della persona nella società del lavoro (dipendente) zero -molto lontano dalla realizzazione del sogno neo-liberale: l'auto-realizzazione di se stessi nella società della competizione, una competizione che nella crisi porta al nulla. (A questo proposito, per i curiosi, è interessante leggere questo saggio [in inglese])
Il Giappone, non la Germania, è il paese-guida che l'Italia sta seguendo nelle politiche del lavoro. In una società di questo genere Gesù, Jim Morrison, Jimi Hendrix o Van Gogh, e tutti coloro che vogliono fare la vita che desiderano, sarebbe stati giudicati - a 15 come a 34 anni - "inutili", "perdenti", "pazzi" o "artisti".
Tradivano il bisogno, l'estrema povertà, la follia, la visione. Loro erano, semplicemente, e dignitosamente, se stessi. Ciò che il "neet", apparentemente non può essere.
No Job? No money (è una questione di qualità).
No Job? No money (è una questione di qualità).
Roberto Ciccarelli
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Per me neet ha senso dopo i 18. Includere gli adolescenti gonfia la cosa e mescola, come avete già detto voi, realtà troppo diverse. Il disoccupato/inoccupato quasi-giovane è invece una figura precisa
RispondiEliminaL'evoluzioni tecnologiche, cibernetiche, scientifiche porteranno una disoccupazione di massa senza precedenti. Il problema non riguarda solo le giovani generazioni ma colpirà la popolazione tutta. La vera questione si risolve solo con una diversa ed equa distribuzione della ricchezza che finora finisce sempre nelle tasche di pochissimi privilegiati.
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