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giovedì 14 dicembre 2017

14/12/2010: LA MATTINA ANDAVAMO A PIAZZA DEL POPOLO


Roberto Ciccarelli 

Ricapito su una mia piccola cronaca emozionale del 14 dicembre 2010: piazza del popolo, Roma. Il movimento contro la riforma universitaria Gelmini, il culmine di due anni di mobilitazione potente, iniziata nella scuola, un movimento sul quale si sono innestati molti altri movimenti. C'è una vibrazione profonda, non dovuta allo scrivente ma a quanto aveva sentito di potente quel giorno, al termine di due anni in cui avevo seguito, coltivato, spinto quel movimento che si addensò tra il 2010 e il 2011. Il giorno dopo ricordo che mi chiamò mio padre in una telefonata sconvolgente: "L'ho letto mi hai fatto piangere. E' la tua storia, è la storia di tutti voi ragazzi". Non ero io, papà, che poi ragazzo non lo ero già più allora. Eravamo noi, tutti insieme. Lo scrissi sanguinante per una manganellata ricevuta perché, in sospensione e quasi in sogno, camminavo in quella piazza prendendo assurdamente appunti. Ogni tanto mi stringe il cuore perché da allora poche volte ho sentito, e scritto, quella potenza. Ma quella potenza è qui e piango ogni volta che sfugge.

***

È stato un singulto. Un urlo strozzato che ha tradito lo sconcerto, e la sorpresa, di vedere il blindato della Finanza prendere fuoco, insieme all'Alfa abbandonata sul marciapiede di via del Babbuino. Veniva dalle retrovie dei ragazzi incordonati dietro le balaustre che separano la fontana dell'obelisco dall'arena lastricata in piazza del Popolo, oppure da quelli assiepati in alto sulle rampe che portano al Pincio. La voce era quella di almeno diecimila ragazze (in maggioranza) e poi ragazzi, tutti giovanissimi vestiti con tinte scure, molti caschi al braccio, foulard al collo grondanti acqua e limone, occhi lucidi per le decine di lacrimogeni esplosi per ore nel Tridente.

Hanno osservato per più di un'ora la scena tumultuosa di inedita durezza per la storia recente della Capitale. In questo esatto momento è accaduto qualcosa che non si era ancora visto, e nemmeno immaginato fino ad oggi. La scena delle fiamme che mangiano le carcasse d'acciaio, il lancio di segnali stradali, assi di legno, sanpietrini, poi la prima carica della polizia respinta in un corpo a corpo con 500 rioters bardati e coperti ha spinto la folla pacifica dei ventenni, o poco più, ad una risposta corale. In quel suono c'era indignazione, rabbia, orrore. E ci sono stati molti applausi.
Un gesto che dovrà essere compreso a fondo nei prossimi mesi. La sensazione circolata in pochi istanti, tra un andare e venire delle cariche, prima dell'ultima violentissima lanciata dalle gimcane dei blindati dei carabinieri e della finanza, è che si è rotto il velo di una finzione. Nella sospensione di un attimo, nell'emissione di questo suono lungo e gutturale, è emersa la radicale separazione, l'intima estraneità, di una generazione in piazza, quella nata tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta dal resto di una società che dolorosamente ignora cosa sta incubando la sua crisi. Per questo la scena degli scontri bisognava osservarla con le spalle girate rispetto al palcoscenico. In questi momenti bisogna allungare lo sguardo, e andare oltre l'estetica, pur grave, dello scontro. È possibile così ricongiungere discorsi, e comportamenti, che vediamo circolare da molti mesi in Italia. Nelle università, ad esempio, che lottano sempre più intensamente contro l'approvazione del disegno di legge Gelmini, che si presume sia ormai prossimo. E nelle scuole, già rimodulate dalla riforma, che rappresentano in questo momento la mappa in tempo reale di una generazione privata di futuro.

giovedì 19 dicembre 2013

LA SOLITUDINE DEI FORCONI NELLA «ROMA METICCIA»

Roma, piazza dell'Esquilino, ore 17
18 dicembre 2013
foto ansa 

Il con­fronto tra i for­coni in piazza del Popolo e quella dei movi­menti dei migranti e per la casa all’Esquilino è stato un viag­gio nel tempo.

La prima piazza era sospesa tra ciò che ha per­duto e ciò che non è mai esi­stito: la «sovra­nità mone­ta­ria», la lira che «valeva la metà ma durava il dop­pio», la sen­sa­zione pre­ca­ria di stare nel motore di un capi­ta­li­smo che a quel tempo fun­zio­nava ancora, la nostal­gia di una comu­nità nazio­nale oggi espro­priata dal «signo­rag­gio ban­ca­rio» e dall’euro («una forma di schia­vi­smo inven­tata negli Stati Uniti nel 1928» è stato detto). 

L’insistenza era sul tri­co­lore “che non è di destra né di sini­stra”, men­tre qual­cun altro scan­diva un’idea chiara: “l’Italia è un popolo, un destino, una nazione”. I toni del pou­ja­di­smo all’italiana sono gli stessi della «Grande pro­le­ta­ria si è mossa» di Gio­vanni Pascoli.