Giuseppe Allegri-Roberto Ciccarelli
Congelamento
degli aumenti salariali. Conferma del pareggio di bilancio nella
Costituzione e quindi di 45 miliardi di tagli per i prossimi 5 anni
alla spesa pubblica. Creazione del commissario europeo al rigore di
bilancio, uno zar che avrà il potere eccezionale di
controllare e imporre misure agli stati che sforano il pareggio di
bilancio dal 2013 in poi. Questa la cornice generale in cui il PD si
appresta ad avviare la politica economica del prossimo governo di
centro-sinistra con l'appoggio dei centristi di Monti.
Tre
comandamenti che non verranno contestati dal centro o dalla destra,
ma certamente dalle ali non silenziate del populismo di destra o di
sinistra. Tutto proseguirà come sempre. Dunque, niente riforma
dell'articolo 18 già riformato dalla riforma Fornero. Impegno
a mantenere le politiche recessive che, secondo il bollettino della
banca
d'Italia del 18 gennaio 2013 abbatterà il Pil al ritmo di un
punto percentuale all'anno. Un film dell'orrore, ma qualcuno cerca di
fare sorridere gli spettatori, promettendo incentivi alla
produttività delle imprese e qualche lenitivo sulla
precarietà, ma senza sbilanciarsi.
Per
non far spaventare l'Europa e le imprese: come reagirebbero
all'annuncio che il primo atto del nuovo governo sarà quello
di abolire 46 forme di contratti precari? E lo Stato, parliamo dello
Stato italiano, il più grande sfruttatore di precariato al
mondo, all'incirca 200 mila persone nella scuola, e poi nella sanità,
non ne parliamo negli enti locali. Abolire il precariato? Questo è
il nefas,
il non-dicibile in Italia. Perché tutto funziona sul
precariato.
Meglio non saperlo. E quindi non farlo. Ma i Tiresia abbondano e
annunciano cupi presagi.
Non
sorprenderà, invece, apprendere che la riforma Fornero sarà
riformata. Tutti, nessuno escluso, vogliono cambiare la legge
approvata solo sette mesi fa. E per quale motivo, di grazia? Dopo
averla approvata sotto la minaccia terroristica di un fumoso
Consiglio europeo del 28 giugno 2012, perché cambiarla di
nuovo? Ma perché la credibilità del «Paese»
non si è mai giocata sull'approvazione di una delle più
approssimative e dilettantesche operazioni legislative che la storia
della Repubblica ricordi. La riforma Fornero è stata
neutralizzata, ma non ancora abolita, già dal governo Monti
attraverso una serie di piccole decisioni di sostanza.
C'è
una
circolare del 28 dicembre 2012
con la quale il ministero del welfare ha rimandato l'applicazione
della riforma sulla famosa questione delle “false partite Iva” a
metà 2014. E ha escluso l'assunzione dei monocomittenti
iscritti agli ordini professionale (avvocati, architetti, ingegneri o
addetti ai media), ma obbligherà
l'assunzione solo di
commessi,
estetiste, muratori e autotrasportatori.
La “strana maggioranza”, liberalizzatrice e riformista, si
parva licet, è
arretrata davanti al ringhio degli ordini professionali, ma ha
lasciato campo libero allo schiavismo nei lavori meno “nobili”.
Il risultato? C'è un governo che ha autorizzato il lavoro nero
nelle professioni “non nobili”. Un chiaro esempio della
credibilità riformatrice di quella che abbiamo battezzato la
riforma Fornero-Treu-Damiano.
Un'allucinazione
durata 400 giorni e sostenuta da Pd, Pdl e Udc? No, questa è
la normalità del governo del lavoro precario, indipendente o
autonomo in Italia. La crisi di credibilità che il governo
Monti avrebbe dovuto risolvere era semplicemente falsa, se oggi tutti
i suoi poco credibili alfieri vogliono credibilmente cambiare la
“riforma” Fornero. Ma per gli immaginari riformisti delle riforme
che si sono scatenati alla ricerca dell'equazione impossibile costerà
fatica ammettere che oggi, come nei prossimi anni, il problema non è
come dare nuove regole ai rapporti di lavoro, ma
come garantire la tenuta sociale di un Paese che continuerà a
perdere posti di lavoro.
Così,
se da una parte sembra ridicolo che una legge dell'estate scorsa,
vanto del Governo dei tecnici, retoricamente titolata “Disposizioni
in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di
crescita”, sia ora oggetto di fantasmatiche riforme immaginarie da
parte di tutti (da Ichino allo stesso Monti; da Bombassei a
Dell'Aringa; per citarne solo alcuni), dall'altra genera rabbia la
leggerezza con la quale si snobba una condizione di sofferenza e di
impoverimento di tutte le forme del lavoro e ancor più nella
sua assenza.
L'effetto
di impoverimento del lavoro – quando c'è – e di reale
povertà e assenza di soluzioni che permettano un'esistenza
dignitosa per se stessi e per la propria famiglia – quando il
lavoro non c'è – sono il portato forse più devastante
di questi primi quattro anni di crisi e si stagliano minacciosi sui
prossimi. Del resto era lo stesso “Governo dei tecnici”, nel
Rapporto
sulle politiche contro l'esclusione sociale
licenziato sempre la scorsa estate dalla Commissione
di Indagine
sull’Esclusione Sociale
(CIES) del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, a
sostenere l'elevata incidenza delle condizioni
di disoccupazione e precarietà
del lavoro nel rischio povertà ed esclusione sociale.
Soprattutto
si notava l'esclusione di ammortizzatori sociali per i lavoratori
precari e l'aumento della disoccupazione di lunga durata, notando gli
effetti nefasti del «sottoutilizzo delle forze di lavoro»
durante la crisi, che ha portato «il bacino degli inattivi
in età lavorativa a circa 15
milioni di persone»,
cui si aggiunge l'ulteriore incremento del «lavoro
irregolare nell'economia sommersa» che
assume «dimensioni rilevanti: secondo l’Istat, i dipendenti
irregolari sono 2,3
milioni,
a cui si possono sommare 657 mila lavoratori autonomi». Se a
questo quadro aggiungiamo la questione
NEET
e le difficoltà degli
over-50
espulsi dal mercato del lavoro siamo dinanzi a un vero e proprio
default
sociale,
che conferma un dato noto dal 1997, anno in cui venne approvata la
prima legge sulla precarietà, il «pacchetto Treu».
La
riforma delle norme del lavoro rappresenta il poligono di tiro nel
quale si esercitano tutti i cecchini che vogliono colpire al cuore il
consenso popolare. Ma quel consenso non esiste. Soprattutto perché
quasi nessuno sembra, credibilmente, insistere sull'urgenza di una
misura universale di tutela sociale, praticabile a partire da una
razionalizzazione delle spese esistenti nella frammentaria e
discriminante articolazione degli attuali ammortizzatori sociali (che
secondo alcuni osservatori è di circa 14,5
miliardi di euro),
per giungere ai circa 20
miliardi di euro
necessari a prevedere un reddito
minimo garantito di circa 600 euro
al mese per i circa 8,3
milioni di persone
(2 milioni 734 mila famiglie) che vivono in condizione di povertà
relativa (BIN
Italia, Reddito
minimo garantito. Un progetto necessario e possibile).
Ma
la real politik non permette di rispondere a questi problemi assai
concreti. Avanti con il rigore e gli incentivi alle imprese. Per
un'Italia giusta.
E
per cosa se no?
lo abbiamo ribloggato, spero con Vostro consenso, qui
RispondiEliminahttp://noi-nuovaofficinaitaliana.blogspot.it/2013/01/il-meraviglioso-mondo-dei-riformatori.html
saluti
grazie!
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