C'è un'ampia letteratura che si interroga da tempo sul progressivo slittamento dalla (più o meno reale) porosità dei meccanismi di governance al ritorno verso le rigidità del comando sovrano, come osserva con l'arguzia che lo contraddistingue Marco Bascetta su il manifesto del 27 ottobre. Infatti uno degli effetti prodotti dall'incancrenirsi delle condizioni di crisi della zona-euro è l'immediato e apparentemente inesorabile de profundis suonato per le forme di governance multilivello praticate nell'ultimo trentennio nel vecchio Continente. Eppure le classi dirigenti statali e continentali sono rimaste le stesse, gelose dei propri egoismi nazionali, disinteressate dal portare a compimento l'integrazione politica europea, rinchiuse nelle secche di politiche monetariste e di un funzionalismo che non fa funzionare nessuna dinamica di trasformazione sociale ed economica. Così l'algida tecnocrazia di una parte delle élites europee diviene l'unico verbo politico pronunciabile, istituendo quel «governo tecnico», “che altro non è se non il governo pienamente politico delle oligarchie” (sempre per riprendere Bascetta), in grado di utilizzare tutte le gradazioni possibili degli strumenti di amministrazione e governo; dall'applicazione postuma della celebre “lettera” della BCE dell'estate 2011, al decreto-legge sulla spending review, il “montismo” sembra la personificazione del compromesso storico nell'epoca della finanziarizzazione delle forme di governo.
I commissari del mercato
A questo proposito ci sovviene una formidabile pagina di Pierre Bourdieu, recentemente restituitaci dai suoi corsi al Collège de France (1989-1992) in Sur l'État (Raison d'agir/du Seuil, 2012, 30 euro; volume che merita ben altri approfondimenti che queste brevissime note), laddove osserva quanto “tutti i nostri discorsi sul liberalismo siano di un'immensa naïveté”, soprattutto dinanzi al paradosso della gran parte delle politiche, che si richiamano al (neo-)liberalismo, e sono in grado di “assicurare ai dominanti i profitti del liberalismo, i profitti della libertà, tanto quanto i profitti della dipendenza statale”. Assistiamo al compimento nefasto di un ciclo trentennale in cui il liberismo del capitalismo finanziario continua ad andare a braccetto con forme illimitate di disciplinamento esistenziale: è la miscela mortifera e solo apparentemente contraddittoria di un capitalismo fuori controllo, in cui la speculazione della rendita e dei mercati finanziari non conosce limiti, mentre le politiche securitarie si fondano sul paradigma della “società del controllo”; la capacità di coniugare ultra-liberismo economico-finanziario e autoritarismo politico-amministrativo, in una sorta di parodia degenerata di un oscuro Leviatano iper-moderno.
Per dirla in termini più raffinati è il sottile, ma stringente, legame tra “ragion di stato, governance e gouvernamentalitè” che innesca un gioco di specchi tra le “politiche di mondializzazione” e le “trasformazioni del neolibearlismo”, come ricostruiscono puntualmente Alessandro Arienzo e Gianfranco Borrelli, in Emergenze democratiche. Ragion di stato, governance, gouvernamentalité (Giannini, 2011, 10 euro). E la loro riflessione torna utile per dire che in realtà assistiamo, proprio al livello statuale, all'inveramento di un “governo economico della politica e delle soggettività”, da intendersi come livello ulteriore e all'ennesima potenza di “una nuova governance commissaria di mercato”.
L'impossibile modernizzazione della sinistra italiana
Nel contesto italiano questa transizione a una forma hard di governance assume i connotati dell'ennesima, irrisolta, transizione istituzionale, sempre con lo sguardo tremendamente rivolto all'indietro, peculiarità propria della sinistra italica, in tutte le sue frammentarie e cangianti salse. Così da una parte si rispolvera una sinistra malinconia di ritorno politicistico del compromesso storico, per sottrarlo alle grinfie professorali del “montismo” e ricondurlo nell'alveo dell'impossibile connubio Berlinguer-Martinazzoli, carico di un irremovibile rigore sacrificale. Contro questa visione in bianco e nero, in nome di una modernizzazione impossibile della sinistra, che più di trent'anni fa produsse Bettino Craxi, per approdare poi al veltronismo di città e di governo, appare oggi un bambinello-scout con il sogno (o l'incubo?) metaforico di mangiare quel che rimane dei comunisti “dalemiani”. E poi, per parafrasare l'immenso Totò, ci si meraviglia se qualche milione di italiani si butta con l'unico soggetto in grado di fare il mattatore – insopportabile, sia chiaro – di questa permanente commediaccia all'italiana, altrettanto insopportabile: il comico dal ghigno furbetto, che ci fa tornare tutti giovani e alcuni anche piccoli, con la mente a Te la do io l'America.
In cerca di autogoverno, federalismo e nuovo Welfare
Eppure proprio il libro di Arienzo e Borrelli ci permette di fare un balzo di immaginario, dismettendo gli occhiali da miope o da presbite che la sinistra italiana continua ad indossare a sproposito, esortandoci a indagare, e quindi ripartire, da quelle “eccedenze democratiche” che si danno nelle conflittuali “trasformazioni governamentali”. È questa la sfida di chi esorta a intravedere, nell'agire quotidiano dei movimenti sociali che contrastano dal basso le derive del capitalismo finanziario, le possibilità di una nuova immaginazione istituzionale, dentro e contro le crisi capitalistiche. Sembra esserci almeno una possibilità, ancorché lo spazio sia assai perimetrato: l'ipotesi che le porzioni più coscienti dei movimenti sociali attivi nel vecchio Continente possano affermare una nuova e autonoma geografia di istituzioni dell'autogoverno, che partendo dalla capacità di trasformare i territori e i rapporti sociali (che siano nelle metropoli o in piccoli comuni), possano mettersi in tensione federativa a livello continentale. Le condizioni di impoverimento diffuso e immiserimento radicale delle forme di vita impongono una saggia scelta costituente dei movimenti sociali che rifiutano posture resistenziali e si ingegnano nell'immaginare la creazione comune di infrastrutture di Welfare dal basso, di riappropriazione e redistribuzione della ricchezza sociale prodotta e saccheggiata dal capitalismo della rendita immobiliare e finanziaria. Sembra essere questo il momento per imporre la concreta utopia di creazione istituzionale dei movimenti, nel senso dell'Europa federata di queste sperimentazioni territoriali, per l'affermazione di una nuova cittadinanza sociale continentale. Altrimenti l'incubo del fallimento di una società europea impaurita, ripiegata in se stessa, abbandonata da classi dirigenti inadeguate e corrotte continuerà a far precipitare un Continente nell'intolleranza dei nazionalismi.
I movimenti, oltre Firenze 10+10 e lo scherzo del Comico
WATCHMEN, Il comico |
Quel che resta dei movimenti sociali capirà la posta in gioco individuale e collettiva che si dà nel perdurare di una recessione infinita che declina in Grande Depressione economica e psichica e l'urgenza di creare infrastrutture di sostegno reciproco, che permettano in prima istanza di vivere in modo degno dentro la crisi, per realizzare quindi una radicale trasformazione dell'esistente?
Per tutto questo il decennale del Forum Sociale Europeo che si terrà a Firenze in questo fine settimana dovrebbe avere la tensione propositiva e costituente all'altezza richiesta dalla situazione, senza trincerarsi nel rimpianto del tempo perso, piuttosto che nella semplice verbalizzazione, da sterile Cassandra postmoderna, dei fallimenti del capitalismo finanziario. Altrimenti, come ci insegna il barbuto di Treviri, si ripete la storia sotto forma di farsa, delle peggiori e con protagonisti del tutto inadeguati, finendo per dare ragione al Comico di Watchmen, celebre capolavoro distopico di Alan Moore e Dave Gibbons, nel suo spietato dialogo con Dr. Manhattan: «Ascolta... Una volta che comprendi che tutto è solo uno scherzo, essere il Comico è l'unica cosa che abbia un senso». È che lo scherzo non è divertente ed il Comico lo sa e si sta adeguando. Giuseppe Allegri
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