Nell'aprile del 1983 è istituita
la prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. La Commissione Bozzi, dal nome del Presidente della Commissione, il
deputato liberale Aldo Bozzi. Per un'ulteriore ciclicità
storica, il di lui nipote ed omonimo, il cittadino, avvocato Aldo
Bozzi è il primo firmatario ricorrente alla Corte di
Cassazione per l'ulteriore rinvio del “Porcellum” alla Corte
costituzionale, come stabilito dall'ordinanza depositata lo scorso 17
maggio.
L'ennesima Commissione per le riforme
Trent'anni dopo, appunto, primi di
giugno 2013, i 35 saggi, autorevoli costituzionalisti nominati dal
Presidente del Consiglio Enrico Letta sono saliti al Quirinale,
accompagnati da altri 7 esperti con compiti “redazionali”. Una
sorta di “manuale Cencelli” applicato agli esperti
costituzionalisti, guidati da Francesco D'Onofrio, che le precedenti
Commissioni bicamerali se le è fatte tutte: da evergreen
democristiano. Così i 42 prof. di diritto costituzionale
avranno il non invidiabile compito di lavorare nei mesi di luglio ed
agosto per il “Comitato dei 40” deputati e senatori che scriverà
la riforma: troppo facile il prevedibile gioco pentastellare su Alì
Baba e i quaranta ladroni.
Quando serve prendere tempo, e
perderlo, si inaugura una Commissione, auspicabilmente bicamerale,
con vista sulle miserie del presente e del passato. Così con
quella “De Mita-Iotti” dei primi anni '90, quindi con il colpo di
fino della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali del
1997, molto più prosaicamente conosciuta come
“D'Alema-Berlusconi”, figlia del “patto della crostata”,
siglato in casa Letta senior, Gianni, lo zio di Enrico.
Eppure sappiamo benissimo che quando
invece “si deve” fare una riforma costituzionale, la si fa,
seguendo il procedimento previsto all'apposito articolo 138 Cost.:
senza artifici istituzionali. Come per l'introduzione del pareggio di
bilancio, imposto dal Fiscal Compact: pochi mesi, maggioranza
schiacciante, per evitare il referendum costituzionale ed ecco la
legge costituzionale n. 1, del 20 aprile 2012; solo un anno fa. Ora
invece ci si fa beffe dell'articolo 138 Cost., prevedendo una corsia
preferenziale che entro i prossimi 18 mesi ci porterà alla
Terza Repubblica: ma ci sarà tempo per commentare il DdL del
Governo.
Lo spauracchio dei semi di
presidenzialismo
A tutto ciò si aggiunge lo
sdoganamento “a sinistra” del presidenzialismo, in realtà
del semipresidenzialismo à la francese. Quello gaullista,
della Quinta Repubblica, la monarchia repubblicana di Maurice
Duverger, ovvero, come già lo definiva Leopoldo Elia,
l'iper-presidenzialismo, nel caso in cui maggioranza presidenziale e
parlamentare coincidano: cioè sempre, dopo le riforme degli
ultimi anni. Forse bisognerebbe tornare a leggersi Il maggio francese
e l'autunno caldo italiano: le risposte di due borghesie, di Alfredo
Gigliobianco e Michele Salvati, per capire come si divaricò la
modernizzazione dei due Paesi nel corso degli anni Settanta. Scoccia,
invece, dover ricordare che la “sinistra” parla di
presidenzialismo, anche qui, da oltre trent'anni.
Il presidenzialismo a sinistra: è
il 1977, bellezza!
Era sempre il 1977: quando i “bambini
volevano mangiare i comunisti”, quelli del PCI, per dirla con il
troppo poco compianto Giuliano Zincone (Però, simpatici quegli
indiani, in Il Sole 24 ore, del 28 gennaio 2007).
Tra i “modernizzatori” della
sinistra socialista italiana si ragiona sui meccanismi di
razionalizzazione delle istituzioni – le necessarie “riforme
istituzionali”, appunto – a partire dall'ipotesi
presidenzialista, di superamento dello “Stato dei partiti”,
proposta su Mondo Operaio da Giuliano Amato (autunno 1977). Ma ecco
il niet del costituzionalista, allora comunista di area Centro
Riforma dello Stato, Antonio Baldassarre, che intravede tendenze
plebiscitarie e populiste, radicalmente pericolose rispetto alla
democrazia dei partiti di massa: eppure accetta il terreno delle
riforme istituzionali. (Incidentalmente: Amato e Baldassarre non sono
tra i saggi di Letta.)
Come si possono salvare le istituzioni
repubblicane dagli intollerabili assalti di questi autonomi, indiani
metropolitani? Sembra questa l'ossessione socialista e comunista
dentro i fallimenti dello Stato dei partiti, mentre quegli “autonomi”
diventano lavoratori autonomi di seconda e poi terza generazione,
definitivamente espulsi dal patto sociale fordista che muore, con il
rischio che si dovrà aspettare fino al 2076 per recuperare i
posti di lavoro persi in questi cinque anni di crisi.
L'ossessione della governabilità
Ma proprio quello era ed è il
problema: dinanzi alla fine dello Stato dei partiti si risponde
inaugurando l'infinita litania delle impossibili “riforme di
struttura”, per far sì che nulla cambi. È l'urgenza
di affermare la supremazia della governabilità, dinanzi alle
spinte democratiche e alle domande di giustizia provenienti dai
movimenti sociali (la traduzione italiana del libro curato da
Crozier, Huntington e Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto
sulla governabilità delle democrazie alla commissione
Trilaterale, è del 1977, con prefazione di Giovanni Agnelli: a
buon intenditore, poche parole!). Mentre la tenuta costituzionale è
sempre più problematica e servirà il “compromesso
storico” per “salvare lo Stato”, non certo la Costituzione.
Il nuovo compromesso storico
democristiano di destra e di sinistra.
Oggi siamo all'ennesima replica di
questo pessimo film, già visto troppe volte. Con la beffa che
al posto dei movimenti sociali degli anni Settanta (metropolitani,
femministi, ecologisti, musicali, etc.) abbiamo il simulacro di un
moVimento: da Andrea Pazienza a Beppe Grillo, dai Sex Pistols a
Povia. Questa è la miseria del presente.
In compenso al potere abbiamo di nuovo
i democristiani in completo compromesso storico:
destra-centro-sinistra. Un autorevole, attuale Senatore, con il quale
abbiamo sempre parlato, oltre che molto letto, forse pure troppo, ci
diceva di rimpiangere Martinazzoli e Berlinguer. Bene, sarà
felicissimo di sostenere il Governo di Enrico Letta, che include
anche Berlusconi, oltre agli eredi catto-comunisti, per difendere
quel che rimane dello “Stato dei partiti”.
Il reggitore dello Stato e il
costituzionalismo che non verrà
Non per essere a tutti i costi troppo
critici, né autoreferenziali citandosi a sproposito, ma la
reggenza di Re Giorgio ci costringe a ricordare, rileggendo Carlo
Esposito, che il Presidente della Repubblica è sempre un
“supremo reggitore dello Stato nelle crisi di sistema”, anche nel
caso di una Repubblica parlamentare (la voce Capo dello Stato, in
Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, 1960)
.
E allora: il (semi)presidenzialismo è
alle porte? O piuttosto il “Sindaco d'Italia”, per far contento
l'attuale Sindaco di Firenze, sempiterno boy scout, anch'egli pronto
a mangiare i comunisti, seppure degradati a “giovani turchi”? Ci
penseranno i saggi costituzionalisti a spaccare il capello in quattro
e forse in sedicesimi, nell'estate che viene.
Può darsi anche, difficile, che
qualcuno tra di loro si alzi e sussurri che “il Re è nudo”
e che forse, piuttosto che di perdersi nell'ennesimo gioco di società
intorno alle “riforme di struttura”, questo Paese e l'Europa
intera avrebbero bisogno di maggiore giustizia sociale, garanzie e
tutele di diritti indivisibili e universali delle persone, scelte di
politiche pubbliche che rendano praticabile una società più
equa dal punto di vista economico, culturale e istituzionale: qui e
ora. Sembrerebbero princìpi guida di un costituzionalismo
democratico e sociale che sappia pensarsi dopo lo “Stato dei
partiti” e oltre l'austera visione economicistica del capitalismo
finanziario.
Molto più prosaicamente saranno
parole al vento dinanzi all'ennesima Commissione per le riforme
costituzionali. Non ci stancheremo di ripeterle: alla ricerca dei
nostri Jefferson o Condorcet, meglio se sanculotti ed eretici.
***
“Ed ecco entrare sulla scena di
questo teatro le centomila panacee dei nuovi sistemi elettorali, le
famiglie di uccelli tropicali dei vari corporativismi, gli anelli
fatali delle riforme credute di struttura, gli ippogrifi delle
istituzioni di democrazia diretta, le brodaglie delle rieducazioni
dei costumi, le dissolvenze delle riforme spirituali, e via di
seguito”.
Massimo Severo Giannini
(Prefazione a Il regime parlamentare di
Georges Burdeau,
Edizioni di Comunità, 1950)
***
Giuseppe Allegri-Roberto Ciccarelli
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