Giuseppe
Allegri
Matteo
Renzi ancora una volta smentisce se stesso. Dopo aver proclamato che
avrebbe immediatamente previsto misure di tutela e garanzia per le
persone logorate da sei anni di Grande Recessione presenta una bozza
da “riformatore del mondo”. Come se avesse avanti decenni di
tempo per far “ripartire il Paese”.
Così presenta un indice assai pretenzioso del suo JobsAct:
titolo anglofono, tutto attaccato e con una esse in più del
previsto. Tu vuo' fa' l'americano?
Si inizia con «il Sistema»: dall'energia alla burocrazia. Si passa
alla creazione di «nuovi posti di lavoro»: saranno più di un
milione, per scavalcare la ventennale propaganda berlusconiana? Si
arriva alle «regole». Una vera e propria riforma di sistema,
appunto, una serie di piani quinquennali, se volessimo sorridere; o
piangere. E la dimensione temporale è forse l'aspetto più critico
di tutta l'impalcatura.
Perché proprio sulle «regole» si torna al dibattito italiano degli
anni Novanta, al massimo aggiornato a metà anni Zero. In quel tempo
Pietro Ichino, Tito Boeri e Pietro Garibaldi discettavano
eruditamente di contratto unico di inserimento a tempo indeterminato
a tutele crescenti: ed è questa la formula ripresa da Renzi per
porre fine alla precarizzazione delle forme del lavoro.
Qui appaiono subito tre grandi equivoci.
Quelle
ricette erano inserite in un contesto “pre-crisi”. Negli ultimi
cinque anni si sono persi milioni di posti di lavoro difficilmente
recuperabili. Anche gli economisti più ottimisti dicono che
l'auspicata, e certo non scontata, ripresa avverrà senza recuperare
i posti di lavoro persi. Jobless Recovery
la chiamano, cioè ripresa senza lavoro, altro che JobsAct!
Si corre poi il serio rischio di eliminare non la precarietà (come
condizione di lavoro), ma il precariato (come lavoratrici e
lavoratori). Esperimento già riuscito alla precedente Riforma
Fornero che ha vessato qualsiasi forma di lavoro intermittente,
indipendente e autonoma, costringendo al nero o alla disoccupazione,
ma non scalfendo minimamente la precarietà del lavoro e soprattutto
dei redditi e dei diritti delle persone. Non è un caso che l'ex
ministra abbia salutato con favore l'iniziativa renziana.
Terzo
equivoco: si vuole ricondurre tutte le forme di attività e di lavoro
sotto il monolite della subordinazione salariata. Praticamente
tornare al patto fordista del Trentennio Glorioso.
Roba da veri maghi del teletrasporto, più che da riformisti.
Ma
in generale tutto l'impianto della proposta sembra sottostare al
ricatto del lavoro e della sua mancanza. L'assegno universale di
disoccupazione è vincolato al corso di formazione professionale da
frequentare e al «non
rifiutare più di una nuova proposta di lavoro».
Fingendo di non sapere che la maggior parte dell'attuale formazione
istituzionalizzata è molto redditizia per gli enti formatori e poco
utile per le persone che devono subirla. Mentre nel secondo caso vi è
una chiara violazione del parametro di congruità dell'offerta
lavorativa rispetto al profilo del lavoratore: vincolo stabilito
anche in sede europea.
Poiché
lo stesso Renzi si rende disponibile a «stimoli e riflessioni»,
accetti un primo consiglio di metodo. La condizione di povertà e
miseria in cui sono costrette le persone non aspetta. È il momento
di infondere sicurezza e fiducia, individuale e collettiva. E questo
può essere fatto solo introducendo garanzie universali: sussidio di
disoccupazione, reddito minimo garantito, salario minimo orario e
giusto compenso. Sarebbe un chiaro segnale di investimento per
migliorare l'esistenza delle persone e introdurre un Welfare
più equo. Una piccola e concreta rivoluzione per il Sistema Paese.
Dalla quale ripartire.
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