“Valutare e punire” (Cronopio) di Valeria Pinto è il primo studio italiano su una materia oscura, o esotica fino a un anno fa: i processi di valutazione nell'ambito della formazione e dell'istruzione pubblica.
Questi processi sono invece in atto da almeno vent’anni dalla Nuova Zelanda agli Stati Uniti, dalla Germania all'Inghilterra, come del resto anche nel nostro paese. Valeria Pinto ne ricostruisce la genesi, cogliendone pienamente l'importanza. Libro ispirato dalle più recenti letture di Foucault condotte dai governmentality studies nell'ambito della pedagogia neoliberale, Valutare e punire è tutt'altro che il riflesso senile o un rifiuto della valutazione. È la difesa appassionata del ruolo della libertà di ricerca, e in particolare della filosofia concepita come spazio materiale di questa libertà. Troviamo che questa esigenza risponda senz'altro al bisogno generalizzato di una libertà individuale negato dal dispositivo governamentale della valutazione, così come si sta strutturando in Italia.
E tuttavia questo spazio della “cura del sé”, il socratico epimeleisthai heautou, riservato alla conoscenza e all'anima del filosofo, può essere soggetto a diverse interpretazioni, come vedremo. La principale leva della resistenza contro la valutazione indicata da Pinto è infatti il motore del soggetto neo-liberale sul quale si basa lo stesso dispositivo criticato in questo libro. La filosofa napoletana è senz'altro al corrente di questo paradosso, del resto indicato da Michel Foucault nei suoi corsi al Collège de France, e per questo individua nella piega tra il governo di sé e degli altri l'occasione di distinguere “una conoscenza finalizzata a qualcosa dalla conoscenza come modo personale di esistere” (p. 180). L'obiezione, rivolta alle opere in cui Foucault spiega questa opzione che per lui non è certo conclusiva ma ipotetica, è la seguente: può la filosofia come ethos, e non come professione del filosofo (accademico), essere il campo dove emerge la possibilità di rovesciare il soggetto neo-liberale, e con esso il dispositivo che guida, giudica e valorizza il senso e le sue azioni? Valeria Pinto risponde positivamente e intende la filosofia come propensione attiva e creatrice di vita, di condotta auto-governata e responsabile del soggetto rispetto alla verità e al governo di sé e degli altri.
Questo ethos della filosofia è dunque l'alternativa alla macchina valutativa dell'Anvur, per quanto riguarda la ricerca scientifica in Italia, o dell'Invalsi, per quanto riguarda la scuola. È un'idea senz'altro interessante, ma che resta problematica nella misura in cui la filosofia è l'atto personale, e quindi necessariamente individuale, di resistenza, un certo modo di rapportsi con l'esistente, con ciò che si sa, insomma un atteggiamento critico rispetto alla società. La domanda è: esistono, in questa società, altrettante posture critiche che sortiscano lo stesso effetto di distanziamento che la filosofia garantisce al filosofo? E in questo modo dimostrare che la valutazione non riguarda solo la comunità accademica, e i suoi ricercatori, bensì un'idea della società?
2. La valutazione è un elemento costituente della retorica neoliberale sulla formazione e sulla produzione scientifica. La sua centralità si afferma nella «legge» della domanda e dell'offerta come misura dell'apprendimento che governa la vita, non solo quella dei ricercatori universitari. La genesi di questa tecnologia di governo può essere rintracciata nel processo di governamentalizzazione dell'università iniziato con la riforma Ruberti nel 1989, quella che istituì l'autonomia degli atenei. L'«autonomia» universitaria diventò il faro dalla riforma del centro-sinistra, la Berlinguer-Zecchino del 2000, imponendo la rimozione degli ostacoli burocratici per favorire «una maggiore funzionalità degli atenei» e il monitoraggio e il controllo dell'«efficienza nell'autogovemo, l'efficacia dei processi e la qualità dei prodotti». Nel 2007, un altro ministro di “centro-sinistra”, Fabio Mussi coadiuvato dal maggiore partito di sinistra dell'epoca – i Democratici di Sinistra – lanciò l'idea dell'Agenzia Nazionale di Valutazione della ricerca (ANVUR), un ente parastatale, nominato dal ministro, che avrebbe dovuto gestire questo processo. Dopo un lungo periodo di latenza, con la riforma Gelmini, questo ente è stato attivato ed è diventato operativo a partire dal 2012.
Valeria Pinto racconta i primi mesi dell'operato di questa macchina governamentale, tematizzando la sua esistenza nella riforma dell'amministrazione dello Stato, elaborata nel corso degli anni Novanta contemporaneamente alla riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione, la riforma Bindi della Sanità (che ha generalizzato il ricorso alla sussidiarietà nel campo socio-sanitario), la riforma “Treu” e poi “Biagi” e oggi “Fornero” del “mercato del lavoro”. L'estrema complessità di questo passaggio politico risponde alle esigenza – vigente da almeno 30 anni nelle democrazie occidentali -del new public management, una logica di governo di stampo commerciale e aziendalistica che sposta le redini del comando da un controllo di natura statale a uno di natura privatistico-manageriale.
La sanità, il mercato del lavoro, le risorse idriche, le politiche del territorio, la cittadinanza, e non solo gli studenti destinatari dell'«offerta formativa», o i ricercatori che devono rispondere al prontuario delle mediane dell'Anvur per essere “meritevoli” del titolo di “scienziati”, sono stati trasformati in «utenti-clienti». Centrale in questa strategia è diventata la garanzia dell'accountability dei soggetti coinvolti, dagli studenti ai docenti, dai pazienti ai medici. I sostenitori della valutazione oggi escludono che il concetto di accountability sia assimilabile a quello di «rendicontazione contabile» ma alla fine si devono arrendere. Rispetto alle sue velleità originarie, prevale il significato di «burocrazia imprenditoriale».
La responsabilità sociale dell'istruzione è stata consegnata all'idea di un servizio prestato contro compenso. Valeria Pinto analizza a fondo gli esiti di questo processo nato dalla teoria del management alla fine degli anni Ottanta e dimostra come l'istruzione sia diventata un campo di battaglia. Non solo perché, come dicono i neoliberisti, essa sia fondamentale per lo sviluppo del «capitale umano», ma perché la conoscenza è diventata l'oggetto stesso del governo e viene valutata solo come cognizione, calcolo, expertise e tecniche: i saperi disinteressati, quelli che non rientrano immediatamente nella professionalizzazione, sono esclusi per definizione. Ciò che conta è l'istruzione tecnica e professionale, spendibile just-in-time sul mercato, amministrabile attraverso i «numeri tossici» della valutazione.
Il lavoro nell'amministrazione, come nell'impresa, è stato così uniformato a un compito fiduciario, basato su un contratto vincolante sia in termini economico-finanziari che in termini morali. Questa trasformazione viene indicata come la prova della «privatizzazione» in atto nel mondo della scuola. In realtà la valutazione racconta un mondo diverso da quello temuto dai difensori del “pubblico statale”. Solo apparentemente rimanda all'operazione classica del liberalismo: sono i mercati che decidono dall'alto di privatizzare la società per monetizzarla.
Quello in atto è invece il procedimento opposto: è lo Stato che estende la logica del mercato all'insieme della società. Il management privatistico di Stato ha introdotto un sistema d'informazione analogo a un sistema di prezzo per un mercato. Ciò che oggi viene valutato è il valore dei soggetti impegnati nella produzione. Ma questo valore è pienamente depersonalizzato e decontestualizzato. Non a caso nei paesi in cui da tempo è stata introdotta la valutazione scientifica, continuano a fioccare le denunce sulla «quantofrenia» di questi sistemi, cioè sull'ipertrofia della burocrazia accademica che ha trasfigurato la ricerca scientifica e con essa il concetto di «valore». È il paradosso di una liberalizzazione che si traduce in una burocratizzazione kafkiana.
La “conoscenza” rappresenta un laboratorio per la sperimentazione della nuova ortopedia sociale nella “società dei controlli”, come da definizione proposta da Gilles Deleuze. La trasformazione della conoscenza in bene economico, il cui valore viene amministrato dallo Stato, ha permesso di inventare una nuova forma di amministrazione centralizzata e ipertrofica. Regolamenti, criteri, indirizzi, norme, decreti, premi, sanzioni, un vasto repertorio di controlli viene spalmato sull'attività di ricerca al fine di governarne l'origine, - cioè la persona che fa ricerca – e la destinazione – il “mercato” che, così formato, dovrebbe rispettare forme equivalenti a livello internazionale.
3. “Di qui – scrive Pinto - l’importanza della valutazione: una pratica di verità funzionale all’instaurazione di regimi di ‘conoscenza amministrata’, cioè regimi di ‘quasi-mercato’, dove si tratta di creare vincoli di mercato pure in assenza di merci e di condizioni corrispondenti» (p. 55). in realtà, quello della “conoscenza” è un mercato delle merci immateriali: brevetti, ma anche pubblicazioni, premi, posti e ruoli nelle università, erogazione dei fondi da parte dello Stato a favore degli atenei (o delle scuole). Un mercato chiaramente in crisi, entrato ormai da almeno 20 anni in una fase deflattiva: diminuzione degli iscritti all'università, “produzione” insufficiente di laureati o diplomati rispetto alle statistiche Ocse non certo rispetto alle esigenze reali di forza-lavoro qualificata da parte dell'impresa o dello Stato.
Non dev'essere dimenticata la realtà dell'”economia della conoscenza”, soprattutto quella italiana, nel momento in cui viene eretta le cattedrali del deserto dell'Anvur e dell'Invalsi. Con queste strutture il legislatore ha voluto reindirizzare il “quasi-mercato” della ricerca e dei fondi pubblici per l'istruzione verso una maggiore “produttività”. Ma tale “produttività” non dev'essere intesa nei termini capitalistici classici: le istituzioni della formazione o della ricerca non producono in sé ricchezza o benessere. Sono invece fondamentali l'applicazione delle loro procedure, la qualità delle tecniche di certificazione delle “performance”, l'utilità dei criteri per misurare le “competenze” rispetto ad un ambito produttivo diretto.
Quello della valutazione è una scomessa sul valore del futuro, proprio come in un gioco di borsa su un derivato o su un fondo obbligazionario. Le riforme universitarie, e scolastiche, sono state realizzate in vista di questa eterogenesi dei fini: l'istituzione-conoscenza pubblica e statale entra così in un nuovo regime di verità dove è essenziale la futuribile redditività del sistema economico pienamente finanziarizzato. Un'attività di ricerca, o di formazione, sono valide quando rispettano le norme e i precetti della nuova ortopedia – la valutazione. Sono “valide”, dunque “produttive”. E sono “produttive” perché certificano la “qualità” di una produzione: saperi contenuti in un prodotto, numeri di laureati rispetto alle classifiche Ocse, numero di brevetti nella ricerca applicata, il Pil investito in ricerca e sviluppo. Questa continua attività di certificazione permette di scalare le statistiche, ottenere fondi, consolidare un prestigio, influire sull'impalpabile mood dei mercati, soddisfare la ricerca ansiosa di “investimenti” dall'estero, abbassare lo spread.
Questo è un aspetto da considerare quando si parla di “valutazione” come modo di governo. Seguendo la ricostruzione di Valeria Pinto, la trasformazione della conoscenza prodotta da un “mercato” e non dal libero e volontario interscambio dei saperi in una comunità accademica, oppure tra un gruppo di ricerca e un'impresa o lo Stato, segna la trasformazione della professione della ricerca, che un tempo rispondeva al presupposto liberale della “naturale fecondità per il progresso economico-sociale”, ad un'altra professione gestita dai ricercatori-imprenditori “legittimi portatori di interesse” a cui lo Stato non può delegare il suo compito principale: il value for money, vale a dire il controllo sulla spesa delle risorse pubbliche (pp.33-4), di cui un'agenzia terza – ma pur sempre statale – deve rendere conto per dimostrare “qualità” e “efficienza” davanti ai mercati globali.
Nel sistema speculativo dell'economia della conoscenza, il ricercatore – in quanto legittimo portatore di interesse – è un imprenditore che agisce nell'interesse dello Stato, quello di contribuire alla creazione di nuove bolle finanziarie. La valutazione è dunque un apparato di cattura che riporta la ricerca nell'ambito statale, proprio quell'ambito che era svanito con la globalizzazione. È lo Stato che compete sui mercati globali, il ricercatore contribuisce alla lotta economica prestando la propria opera alle ambizioni della Nazione. Per chiunque abbia una minima cognizione del capitalismo finanziario questa è chiaramente una barzelletta. L'interesse della Nazione (la crescita del Pil, del valore degli atenei, dell'economia di scala) è solo il riflesso condizionato di un'identità soffocata in un teatro mondiale dove la sua esistenza non è semplicemente prevista. Tanto più grande è il teatro, quanto più necessaria è l'esigenza di simulare l'esistenza di un'identità piena e consapevole – la Nazione, con la maiuscola – capace di affrontare il baratro dell'infinito.
4. Uno dei punti più interessanti di Valutare e punire è la critica della declinazione della conoscenza come innovazione e come sviluppo economico. A questa equivalenza ricorrono tutti coloro che pretendono, a ragione, il rifinanziamento della scuola e dell'università, tagliate di 10 miliardi di euro dal 2008 al 2013 in Italia dal governo Berlusconi. La lettura di questo libro dimostra come anche questa rivendicazione condivida il campo di significati, e di verità, prodotto dalla trasformazione neoliberale della conoscenza. Senza interrogarsi a sufficienza, soggetti sociali e sindacali che sono storicamente e politicamente lontanissimi dal pensare che la conoscenza si organizzi in base alla “meritocrazia” delle competenze personali e dei ruoli istituzionali rivendicano dunque la stessa cosa di chi ha creato, e gestirà per la prossima generazione, la macchina neoliberale della valutazione: l'innovazione è sviluppo e crescita economica. Senza quei 10 miliardi di euro, e comunque senza risorse crescenti destinati a finanziare il “quasi-mercato” della conoscenza, non è possibile garantire l'“uguaglianza” delle opportunità e nemmeno il merito delle professionalità.
Da cosa deriva questa insospettabile convergenza di visioni del mondo e di interessi collettivi? Da quale razionalità politica discende l'incontro tra principi radicalmente opposti come l'uguaglianza e la meritocrazia? Michel Foucault ha mostrato ne La nascita della biopolitica e in Sicurezza, territorio e popolazione come la razionalità politica che ispira la socialdemocrazia non matura su un piano di governo distinto da quello del neoliberismo, anglosassone e tedesco. Senza ripetere la sua analisi, basta soffermarsi sul determinismo economico che accomuna queste razionalità politiche diverse.
L'apparente ragionevolezza di questa equivalenza mette d'accordo gli avversari in nome di un naturalismo giuridico, e politico, di fondo: la cultura è un bene comune perché la cultura è un bene economico di interesse generale. Come tutti i naturalismi, anche questo sembra essere scolpito nell'evidenza. In realtà, è il risultato di una costruzione giuridica che implementa il presupposto economico dell'idea di “bene”. L'unanimismo di questa idea è infatti l'espressione di una condivisione di fondo: lo Stato crea un mercato e, quando il mercato “va male”, lo assiste, ne paga i debiti, lo ricrea sostenendone le prospettive. Sembra un paradosso per un'economia che si vuole “liberista”, ma per chi ha una minima conoscenza della corrente “ordoliberale” tedesca - che è poi il liberismo applicato in tutta Europa, non certo quello anglosassone – il protagonismo dello Stato non sorprende. Qui lo Stato non è “minimo”, come vorrebbe una certa vulgata che schiaccia il neo-liberismo sull'anarco-capitalismo di Nozick. Al contrario, lo Stato è il gestore diretto di una mediazione con il mercato ma, soprattutto, introietta tutte le tecnologie del governo del mercato stesso. Con le parole di Foucault, lo Stato condivide la medesima razionalità politica del mercato quando identifica la conoscenza in un bene economico, e questo bene economico in un bene comune.
Per questa ragione, le politiche di “destra” o di “sinistra” predicano il ritorno alla crescita mediante l'investimento meramente quantitativo ed economicistico dell'economia della conoscenza. Se ha ancora una qualche utilità oggi lo Stato, essa non risiede più nell'affermazione di una sovranità pubblica, bensì nella promozione della crescita economica. Un'economia della conoscenza è sempre basata sull'aumento del numero di laureati-forza-lavoro specializzata a disposizione della domanda delle imprese, anche quando – come nel caso italiano – questa domanda non esiste. Tutte le riforme sono state fatte alla luce di questo principio neoliberale. Ed è ancora questo il principio auspicato da chi, pur non essendo d'accordo con queste riforme, desidera salvare il sistema dal suo fallimento, risollevando la “conoscenza” dall'attuale recessione. Ne va del senso dello Stato, e quindi del mercato. L'implosione della razionalità economica che governa tanto il “mercato”, quanto la “conoscenza” non ha ancora messo in discussione il legame costitutivo tra i saperi e il loro valore economico e, in generale, tra cultura-innovazione-progresso, perché non è mai stato chiarito il ruolo dello Stato in quanto attore principale della crescita.
Non farlo oggi significa rischiare di sottovalutare un altro, importante, aspetto della valutazione. Il centrosinistra nel 2007, e poi la riforma Gelmini nel 2010, hanno creato l'Anvur per soddisfare l'imperativo della governamentalità neoliberale: la valutazione è un'istanza di garanzia per il cittadino-cliente, per soddisfare la sua ricerca di qualità dei servizi, per implementare il benessere individuale e sociale della Nazione, e non per farla regredire all'inciviltà. Valutare e punire rischia di perdere di vista questo elemento costitutivo del neoliberismo: l'effetto di impoverimento, e regressione, di una ricerca sottoposta alla quantofrenia è la conseguenza dell'implosione della bolla formativa, non di una deliberata scelta da parte dei suoi manutentori di impoverire e distruggere la ricerca o la scuola, tornando così alla barbarie.
Certo, il problema politico resta: perché davanti al fallimento, ci si ostina a continuare sul vecchio sentiero? Ciò non toglie che la governamentalità neoliberale nasca per garantire e premiare l'attività del soggetto in direzione del benessere, della ricchezza individuale, del consenso generale. Non distinguere questi due livelli, significa precludersi la possibilità di rispondere all'interrogativo: perché la “destra” e la “sinistra” pensano che la “conoscenza” sia un “bene comune” e un “bene economico”?
Il conflitto non è se finanziare scuola e università – su questo le parti sono d'accordo – ma a cosa serva il finanziamento, e l'innovazione, se è chiaro che è l'intero sistema a non funzionare e il rimedio della valutazione rischia soltanto di prolungarne l'agonia, moltiplicando errori, inceppamenti, corruzioni, mistificazioni. A questo proposito, e coerentemente con il principio stesso di un governo neoliberale della conoscenza, si può affermare che, se il conflitto esiste, allora esso è sul soggetto che deve amministrare una crisi di lunga durata, provocata dal crollo di un modello economico che accomuna sia la razionalità social-democratica che quella neo-liberista. Il ruolo dello Stato, così come quello del mercato, trovano un nuovo punto di congiunzione in questa missione: creare – o ricreare - artificialmente un “bene” comune, ricorrendo alla burocrazia neoimprenditoriale di Stato che interviene quando il mercato latita, o non esiste.
È uno degli aspetti autoritari, e statalistici, del liberalismo applicato all'economia, le cui premesse e finalità vengono analizzate anche in Valutare e punire.
5. Il libro di Valeria Pinto è uno strumento di opposizione all'idea che il ricercatore sia un agente economico al servizio di una razionalità che supporta, o si sostituisce allo Stato, nel suo impegno di risparmiare le risorse pubbliche, rendendo efficienti i “servizi” erogati dalle istituzioni, e dal mercato. E lo fa in nome di un sapere esistenziale, di una responsabilità che esula evidentemente dai ristretti margini naturalizzati di un soggetto che rivendica il principio dell'economia – una scienza triste, senza soggettività né intensità di pensiero – a favore della “filosofia”, intesa come spazio liberato dall'economia dominante. Ora, non si tratta di precisare che questa “scienza grigia” - che poi, come ha dimostrato la crisi, non è nemmeno una scienza, incapace com'è di produrre previsioni sulla tendenza – implica una creazione di soggettività, ma bisogna interrogare il pieno di soggettività di cui sarebbe portatrice la “filosofia” che l'autrice considera l'alternativa all'economia neo-liberista della ricerca.
Da questo il libro si deduce un conflitto tra le facoltà, rischiando di evocare non la supremazia dottrinaria della filosofia sull'economia, bensì la sua qualità esistenziale contro il grigiore aritmetico e fallimentare di una scienza del governo che ha causato la crisi che oggi vuole risolvere. Altro discorso sarebbe quello di riconoscere alla politica neo-liberale il tentativo di interpretare questa presunta “ricchezza” del soggetto attraverso l'economia del “capitale umano”, il concetto coniato dall'economista americano Gary Becker (e non solo) e usato indifferentemente dalla destra e dalla sinistra, dai fautori del neo-liberismo per mezzo della valutazione, come dai suoi avversari difensori dell'uguaglianza anti-meritocratica.
L'uso acritico del concetto di “capitale umano” non ha smentito l'idea che l'investimento economico nella cultura implichi uno sviluppo del settore dell'innovazione, come del resto viene affermato a livello europeo nell'ambito del programma Horizon 2020. Questa ricezione ha impedito di squadernare la crisi alla quale la valutazione cerca di porre rimedio. Il ricercatore, lo studente, il precario, insomma il cittadino, sono portatori di un valore economico incarnato, un “bene comune” che deve essere tutelato e implementato. Per questa ragione i critici della valutazione dell'Anvur specificano sempre di non essere contro l'idea della valutazione, perché sono contro questa valutazione i cui effetti restano quelli dell'impoverimento culturale, scientifico, anche economico. In quanto campo della lotta politica sul senso e il valore dei saperi, oggi la valutazione non può non restare una certificazione delle competenze della ricchezza posseduta dal “capitale umano”. In altre parole, se si vuole criticare radicalmente l'ideologia della valutazione, e non solo la valutazione in sé, è necessario identificare lo sfondo proprietario dal quale emerge l'equivalenza della conoscenza come bene comune e come bene economico.
Questo sfondo proprietario viene garantito dalla teoria del capitale umano che declina la vecchia idea della proprietà nella persona dell'individuo sovrano. Il “bene comune” è costituito principalmente dalle risorse della persona, che nel particolare possono essere le sue “competenze” (professionali, scientifiche), ma in generale è senz'altro la sua forma di vita. Al centro di questa teoria esistono due elementi: il lavoro e il reddito che la persona può trarre dal suo “capitale umano” e dal suo corredo genetico. Quest'ultimo aspetto è ormai reale nell'industria bio-farmaceutica, o in quella bio-informatica la cui affermazione ha reso enormemente redditizia l'estrazione del plusvalore da quello che Nikolas Rose definisce il soma, oltre che dal rendimenti in borsa. Il primo aspetto è tuttavia centrale per comprendere la valutazione.
Nella teoria di Becker, infatti, è centrale l'investimento educativo, un concetto che è molto più ampio della semplice istruzione scolastica, universitaria o della formazione professionale. Esso si estende al tempo che i genitore dedicano ai figli, le cure prestate dalla madre al neonato, la cultura personale dei genitori, gli stimoli culturali ricevuti dal bambino. C'è poi la mobilità di un individuo di cambiare il paese (migrazione), o lavoro (mobilità sociale con il cambiamento dello status professionale, remunerazione). Il capitale umano è l'insieme delle pratiche relazionali utili alla riproduzione della società e alla produzione della personalità. Tale capitale cresce quando l'individuo investe su se stesso per ottenere qualsiasi miglioramento della propria e dell'altrui condizione. L'innovazione sociale è il risultato di un investimento umano della persona su se stessa, non solo una questione di progresso tecnico o scientifico.
Alla luce di queste caratteristiche di base, il “capitale umano” indica la strada per una crescita economica che non è più vincolata all'investimento di un capitalo fisico o al numero dei lavoratori occupati. Esso è incentrato sull'investimento nelle politiche sociali, culturali, educative. Tutti elementi che portano ad escludere che la trasmissione, l'educazione, la formazione siano ancora centrati su un'antropologia, un'etica o una politica del lavoro, ma sull'economia del capitale. L'individuo è un'impresa, un investimento, in una parola un investitore di se stesso e su se stesso.
Nessuna politica, nell'economia della conoscenza, ha gli strumenti – e comunque la volontà – di contestare questo piano del discorso che riscuote un consenso universale. Anzi, questa è la base per giudicare e criticare cosa non funziona nel sistema di valutazione approntato dalla riforma Gelmini nella scuola e nell'università italiane. La deriva economicista imposta dal sistema Anvur, o Invalsi può essere corretta in base alla teoria originaria del “capitale umano”, al suo ideale umanistico di innovazione e di cura del miglioramento della persona e del bene comune di una società. La stessa idea che la valutazione imposta dal sistema neoliberale sia stata un fallimento, come del resto è stato dimostrato in Europa con il processo di Bologna oppure negli Stati Uniti con l'esplosione della bolla finanziaria creata dall'indebitamento degli studenti, può essere corretta ricorrendo alla teoria di Becker.
Evocare il “capitale umano”, e il legame originario tra la conoscenza e il bene comune, non significa affatto distanziarsi dalla necessità di un'analisi economica finalizzata a una scelta strategica dei mezzi, degli strumenti per condizionare ogni condotta razionale durante l'infanzia, come durante la vecchiaia, senza considerare l'età della maturità. L'obiettivo della politica del capitale umano resta l'educazione del cittadino al ragionamento formale e alla maturazione di una condotta strategica dell'individuo in direzione dell'accumulazione di esperienze, benessere, condivisione e sostenibilità di una vita ben regolata, condotta in nome del bene comune. Il capitale umano resta pur sempre il bene della società.
Il problema di Valutare e punire è capire se la filosofia può rappresentare lo scarto, o l'eccedenza, capace di sottrarre la conoscenza dalla presa dell'homo oeconomicus, anche quello della versione neoliberale di Becker, non riducibile alla più antica versione del liberalismo moderno.
7. Valeria Pinto segnala come il posizionamento della filosofia rispetto alla divisione delle facoltà, e all'organizzazione statale del sapere, sia un problema delicatissimo che rappresenta un'eccezione nelle discipline universitarie. Il contenuto della filosofia starebbe nella cura di sé, “della propria anima intesa come principio di attività” e non nella conoscenza (p.181). Ciò distinguerebbe l'esercizio della filosofia rispetto alla “filosofia nelle università”, attribuendo così all'esperienza del filosofo, ai suoi atti come ai suoi pensieri, un'eccezionalità rispetto agli altri mestieri della ricerca, come forse agli stessi filosofi che lavorano stipendiati in un'università.
In questa cura dell'anima la filosofia troverebbe il punto di vista immanente rispetto all'atto puro del pensare, mentre il filosofo sarebbe il segno dell'eccezione rispetto all'esercizio di un sapere specifico, anche filosofico. Viene citato Goethe: “una cosa esistente [come la filosofia, ndr] e viva non può essere misurata da nulla che le sia esterno, ma se ciò dovesse accadere dovrebbe essere essa stessa a fornire la misura per farlo” (p. 182). Il libro si chiude su questa considerazione, pur riconoscendo che il problema dell'auto-valutazione della filosofia “diventa acutissimo”.
E lo è, a tutti gli effetti, perché l'immanenza a cui rimanda Goethe in questo passaggio, altro non è che il pensiero puro di una vita filosofica che riflette su se stessa, dal punto di vista interno, capace di giudicarsi da sé. Un problema che, a ben vedere, se così posto, era già presente nell'organizzazione corporativa dell'università e, in generale, in quella humboldtiana- napoleonica, che è poi alla base degli ordinamenti universitari europei oggi devastati dalla svolta manageriale. Se è davvero necessario parlare di immanenza, non è esattamente questa l'accezione da usare, soprattutto nella chiave che interessa Valeria Pinto, cioè trovare un'esperienza non riconducibile al dispositivo della valutazione e quindi all'equivalenza tra conoscenza-innovazione-progresso (umano)-bene economico.
Questa risposta non è sufficiente per sfuggire all'apparato di cattura del capitale umano, e ai dilemmi della valutazione, sebbene possa ancora giocare una carta a proprio favore: aspettare e prendere tempo, perché “c'è ancora qualcosa da capire”. Tutto il nostro interesse va a questo scarto, attesa, diluzione del momento in cui la filosofia diventa conoscenza. Perché la filosofia non è immediatamente conoscenza, comunicazione, marketing o trasmissione di un sapere. La vita filosofica, se è tale, consiste nel perdere progressivamente lo specifico di un'esperienza filosofica a favore della creazione di concetti, nuovi regimi della normatività, esplorazione di una potenza della vita che attualizza le virtualità immanenti del suo divenire. E questo lo si potrebbe dire per tutte le altre discipline – ad esempio la matematica, la fisica o la chimica e tutta la ricerca di base dove l'attività della sperimentazione non può rientrare in un sistema di valutazione, almeno quello pensato dall'Anvur in Italia.
Il problema è cosa distingue tutti i saperi - e non solo quelli delle discipline universitarie - dall'interrogazione politica – e non solo filosofica – sulla razionalità neoliberale del capitale umano. Cercare una risposta nell'interpretazione etico-estetica di Foucault (che in questo libro viene ridotta alla lettura che ne ha dato Pierre Hadot, molto popolare tra i filosofi italiani) è insufficiente, anche perchè Foucault non è riducibile all'idea del soggetto estetico-filosofico come istanza della critica della ragione governamentale, l'unica a rappresentare l'alternativa al soggetto strategico ed economico con gli esercizi della cura di sé.
Se volessimo però restare nel campo foucaultiano, così come ci invita a fare Valutare e punire sin dal titolo, allora bisogna testimoniare che l'origine del pensatore francese non è quella di una filosofia ermeneutica del soggetto, in fondo così simile al soggetto neoliberale che si vorrebbe criticare: quello della “cura del sé”, dell'“empowerment”, del capitale umano da accrescere con gli esercizi realizzati dall'imprenditore di se stesso per essere valutato al meglio, secondo quello che è il suo capitale umano.
Può essere comunque rintracciato tra le righe di Valutare e punire, come istanza virtuale, ma attuale, rispetto all'esigenza – reale, e praticabile – di una pratica del pensiero in un mondo che sarà dominato dall'ortopedia sociale dell'Anvur per la prossima generazione.
Roberto Ciccarelli
Pubblicato su Rivista critica di diritto privato (academia.edu)
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