Nel XIX secolo, in Inghilterra, negli
Stati Uniti e in Germania la ricerca e l’educazione
tecnico-scientifica hanno iniziato lentamente a prevalere su quella
umanistica. E tuttavia il modello humboldtiano sarebbe rimasto per
molto tempo l’ideale globale di università. Ancora negli anni
sessanta del Novecento, un rapporto indipendente avrebbe stabilito
come obiettivo del sistema universitario inglese “la promozione
delle funzioni generali della mente, per produrre non solo
specialisti, ma anche donne e uomini colti”. Questa idea di
università è stata ampiamente criticata, nel corso
dell’ultimo secolo, per la sua impostazione umanistica, rivolta
soprattutto alla tradizione e agli studi classici.
L’idea di
fondo era che facoltà scientifiche, tecno-scientifiche,
professionalizzanti e umanistiche collaborassero insieme, senza
gerarchie prefissate, e nella piena indipendenza del corpo docente,
alla produzione di conoscenza per la collettività. Un bene, il
sapere, considerato superiore a qualsiasi costo necessario per
produrlo. Questa cultura dell’auto-organizzazione è stata
progressivamente erosa in tutto il mondo quando si sono affermate
politiche economiche liberiste.
Nell’università italiana, l’augusto
modello ottocentesco si è incarnato fin dalla fondazione dello stato
unitario in una realtà molto più prosaica. Per cominciare, il
ministero ha sempre controllato pedantemente l’operato delle sedi
fino nei minimi dettagli procedurali; inoltre, il corpo docente ha
gestito in piena autonomia il sistema del reclutamento e delle
promozioni.
In Italia, si può parlare di una sorta di patto
tacito tra lo stato e le università. Il primo non ha mai speso
troppo per la formazione superiore, lasciando al contempo al ceto
accademico il pieno controllo del reclutamento e della promozione
attraverso il sistema dei concorsi. La nomina elettiva delle
commissioni ha inevitabilmente comportato la formazione di partiti
accademici trasversali che, fino al recente sistema dei sorteggi,
hanno dato vita a un potere difficilmente eliminabile. In questo
senso, il vero ostacolo alla modernizzazione del sistema
universitario, in nome dell’universalismo e della libertà
d’accesso, non è dato tanto dai numerosi e documentati casi di
nepotismo, quanto dai normali meccanismi di reclutamento.
Il ventennio riformatore
Ben prima del cosiddetto processo di Bologna, l’università
italiana ha cambiato modello di governo, riforma dopo riforma, legge
dopo legge, decreto dopo decreto. Ora, non è il caso di riprendere
qui la storia dei cambiamenti del sistema universitario italiano. La
questione essenziale è che, dal 1989, con Ruberti e la cosiddetta
“autonomia amministrativa”, la leva finanziaria, cioè la
riduzione dei finanziamenti statali, è stata considerata decisiva
per “risolvere” il cronico indebitamento delle università
italiane e soprattutto per imporre criteri razionali o “di merito”
nella gestione delle risorse.
Sarebbe sbagliato minimizzare la
responsabilità del ceto accademico nella proliferazione delle
cattedre, in certe fasi della riforma (come negli anni Novanta,
all’epoca di Berlinguer e del ridisegno dei settori
scientifico-disciplinari) e quindi in una crescita “irrazionale”
del personale. Ma è anche vero che l’università italiana è
cronicamente sottofinanziata, e il rapporto tra docenti e studenti
uno dei più sfavorevoli in Europa. Il metodo Ruberti, seguito da
quello dei successori senza troppa distinzione di colore politico, è
consistito in sostanza nel premiare le sedi “virtuose” e nel
punire quelle “viziose”, con il risultato di scavare un fossato
incolmabile tra le prime e le seconde, e di favorire quelle più
capaci di procurarsi fondi nel mercato (per esempio, i politecnici).
La questione della valutazione della ricerca rientra in questo
processo di progressivo dimagrimento dell’università italiana in
nome dei superiori interessi del mercato. Prima di vederne i principi
ispiratori e le procedure reali – e quindi l’ideologia
soggiacente – è però il caso di ricordare che, come ogni
attribuzione di valore, la valutazione non è una misurazione
scientifica e imparziale di una prestazione, ma un tipo di
classificazione che dipende dal “punto di vista”, e dagli
interessi, di chi valuta. E quindi anche gli strumenti della
valutazione non possono che risentire di questa origine.
La cultura
quantitativa della valutazione (che si esprime in indici
bibliometrici, ranking delle riviste, classifiche delle università
ecc.) adotta largamente quella cultura degli algoritmi che oggi
domina la finanza e il mondo della rete. Questa cultura, presentata
oggi come necessaria, inevitabile, oggettiva ecc., è naturalmente
funzionale agli scopi di chi trae vantaggio dalla classificazione
quantitativa e quindi da una gerarchia meramente numerica.
Il decisionismo politico dell'Anvur
La valutazione della ricerca non sfugge a questo tipo di logica a
cascata. Se si stabilisce che la qualità (il “valore”) della
ricerca in un certo paese è definita da certi indici quantitativi, è
del tutto consequenziale che la gerarchia che ne risulta acquisti,
per così dire, un valore morale (un po’ come, in tedesco, il
termine Schuld, “debito”, significa anche “colpa”). Si
consideri, per esempio, il perentorio invito di Francesco Giavazzi,
uno dei teorici italiani della diminuzione della spesa pubblica a
ogni costo, a chiudere alcune sedi universitarie: “A Bari, Messina
e Urbino […] la chiusura di quelle tre università (in fondo alla
classifica anvur) è nell’interesse dei loro figli [dei cittadini].
Non è frequentando una fabbrica delle illusioni che si costruisce il
futuro”.
Con queste poche e semplici parole, l’autore ha chiarito una
volta per tutte quale sia stato lo scopo ultimo della fondazione
dell’anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università
e della ricerca e della classifica delle università, costruita in
base alla misurazione delle prestazioni scientifiche. In breve, si
tratta dell’applicazione al mondo della ricerca italiana della
stessa cultura della punizione che si è affermata con la
globalizzazione in campo economico.
Ora, come è noto, la creazione
dell’Agenzia e le sue procedure hanno dato vita negli ultimi anni a
un vivace dibattito. Quello che è emerso, al di là del tono
trionfalistico adottato solitamente dagli esponenti dell’anvur, è
uno straordinario pressapochismo nell’applicazione dei criteri
“oggettivi” e “scientifici” di valutazione. Proprio mentre
nel resto del mondo, per esempio, gli indici bibliometrici venivano
sottoposti a critiche spietate, e spesso rifiutati dalle istituzioni
della ricerca e dalle associazioni di settore, i nostri valutatori li
adottavano con un entusiasmo xenofilo paragonabile a quello di un
certo personaggio filo-americano di Alberto Sordi.
Ma quello che più di tutto è significativo, in Italia,
è il decisionismo con cui, fino all’insediamento dell’anvur,
è stata promossa la valutazione. Un consiglio direttivo di nomina
esclusivamente politica ha insediato “gruppi di esperti valutatori”
senza alcuna procedura universalistica e trasparente di reclutamento.
Con il risultato che i professori si sono messi a giudicare i
professori, capovolgendo il senso della massima di Kant, solo per il
fatto di essere stati nominati, spesso in base alla loro affiliazione
accademica o confessionale. E spiace che, qua e là, anche docenti
noti e stimati si siano prestati a questo atto di forza, un classico
modello di interventismo politico-burocratico (per di più in nome
dell’universalismo scientifico), il cui scopo ultimo è il cieco
adeguamento alla cultura prevalente degli algoritmi. Nulla come il
caso italiano dimostra come, decostruendo la cultura della
valutazione, si arriva, in fondo, a una mera e arbitraria decisione
politica.
(Estratto del saggio di Alessandro Dal Lago contenuto nel numero 360 della Rivista Aut Aut, Il Saggiatore, pubblicato su Il Manifesto del 20 dicembre 2013)
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