Si
vuole essere valutati per strappare un’oppurtunità di lavoro o la
speranza di essere riconosciuti come cittadini. Ma valutare è anche
un esercizio di potere. La coincidenza tra questi desideri, quello di
chi sceglie volontariamente la servitù e di chi gode nel
riconoscerla negli altri, spiega l’irresistibile crescita della
valutazione nel mondo neoliberale e la sua inesausta richiesta man
mano che la crisi abbatte gli ultimi totem della democrazia.
Occupabili
e obbedienti
Questo
strumento di governo delle anime e dei corpi svolge un ruolo
strategico nella scuola e nell’università, lì dove tutto iniziacon i test Pisa e Invalsi. Sin dalle materne, gli allievi «virtuosi»
o «a rischio» vengono addestrati all’idea di «occupabilità»,
cioè a dimostrare di essere disponibili sul mercato del
lavoro, pronti ad una nuova verifica, ad un’altra abilitazione o
una selezione, per ottenere un contratto ed essere riconosciuti come
«cittadini». Quello che conta è dimostrare al
valutatore, all'autorità, al datore di lavoro vero o presunto di essere pronti a rispondere ad una chiamata, sempre adattabili alle condizioni imposte dal mercato. Qualsiasi esse siano.
La meritocrazia non è un regime di polizia. Il regime di polizia lo crea chi accetta di farsi valutare ed essere controllato rispetto a una serie di norme chiave. Non è una condizione riservata ai soli studenti. Quella della valutazione è un’utopia che molti vogliono applicare alla società. Questo totem creato da Platone ne La Repubblica oggi viene venerato in maniera acritica dalla destra come dalla sinistra.
La meritocrazia non è un regime di polizia. Il regime di polizia lo crea chi accetta di farsi valutare ed essere controllato rispetto a una serie di norme chiave. Non è una condizione riservata ai soli studenti. Quella della valutazione è un’utopia che molti vogliono applicare alla società. Questo totem creato da Platone ne La Repubblica oggi viene venerato in maniera acritica dalla destra come dalla sinistra.
La
valutazione misura e, di conseguenza, giudica la vita degli altri
attraverso la certificazione delle competenze e le classifiche di
rendimento che attestano la «performatività» di un individuo
rispetto agli obiettivi imposti dall’alto. Il benessere di una
persona, come quello di una collettività, è dato dalla capacità di
produrre «risultati» costanti nel tempo. Come in un campionato di
calcio. Oppure in borsa. Il cittadino esiste in virtù del suo
curriculum o del portafoglio di titoli che possiede a Singapore. Un
ateneo è «virtuoso» se mantiene i conti a posto. Un percentile in
meno nelle classifiche stilate dai valutatori ministeriali e il
commissariamento, o il fallimento, è alle porte.
Paura,
ansia, insicurezza. Queste sono le passioni dominanti nella scuola e
nell’università al tempo della valutazione. Questa società non è
tuttavia quella orwelliana di 1984, bensì quella che il filosofo
francese Gilles Deleuze ha definito una «società dei controlli». È
l’individuo a dovere praticare un controllo su se stesso, non è lo
Stato ad obbligarlo. Dicono che il premio finale di questa folle
corsa sia il benessere personale o quello collettivo.
Servitù
volontarie
Una
prospettiva che non convince la filosofa Angélique Del Rey, allieva
del filosofo e psicoanalista franco-argentino Michel Benasayag, in un
libro che dovrebbe essere tradotto in italiano, La
tyrannie de l’évaluation (LaDécouverte).La filosofa francese sostiene che la valutazione, intesa
come strmento del governo di sé e degli altri, intreccia valori
economici con quelli morali e fonda un’etica contraddittoria. Da un
lato, si prende cura dell’individuo. Dall’altro lato, gli
impedisce di realizzarsi completamente. Questo accade perché la
valutazione è sempre al servizio dei manager, della burocrazia e, in
fondo, della politica. Questo è l’esito della valutazione
«oggettiva» degli atenei stilata dall’agenzia nazionale della
ricerca universitaria (Anvur).
La
decisione finale sull’erogazione dei fondi agli atenei in base alla
scelta della classifica migliore perché ne esistono diverse, spetta
al ministro in carica. La valutazione non è mai «oggettiva». Si
fonda su un decisionismo politico mascherato, ma fortissimo. Il suo
obiettivo è controllare la flessibilità dei lavoratori (precari o
disoccupati), governare la precarizzazione psicologica ed economica
degli individui, vincolandoli al rispetto delle «buone pratiche»
nella società della «formazione permanente». Chi accetta di essere
valutato strappa l’illusione di partecipare ad un grande gioco di
società, ma il prezzo per ottenere il riconoscimento del sospirato
«merito» è altissimo: bisogna accettare di essere servi volontari
di un imperativo economico.
Cresce
il dissenso
Nell’università
italiana sta crescendo il dissenso rispetto a questo progetto
sociale. Si spiega anche così il successo del magazine Roars .it (5milioni di visite in due anni). L’opposizione al neoliberismo
accademico, basata sulla valutazione delle discipline e dei saperi di
tipo meramente quantitativo e burocratico, è stata formulata nel
fortunato libro di Valeria Pinto Valutare
e Punire (Cronopio,2012) ed è stata ripresa più di recente da Carmelo Albanese ne Il
feticcio della meritocrazia (Manifestolibri),
un affondo contro la meritocrazia, canonizzata dall’ex manager
McKinsey Roger Abravanel e alimentata dagli economisti bocconiani sui
maggiori quotidiani italiani dal 2008, quando è iniziato il percorso
della riforma Gelmini.
L’opposizione
alle metodologie dell’Anvur è cresciuta anche nei settori
tradizionali dell’accademia. Il filosofo e accademico dei Lincei
Tullio Gregory è più volte intervenuto sulle colonne de Il
Manifesto (qui e qui).
Le sue critiche sono state riprese anche dall’Appello
per le scienze umane pubblicato
da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito e Ernesto Galli Della Loggia
sulla rivista Il Mulino
(6/2013).
Questi studiosi denunciano la valutazione «come marketing
aziendale»,
il merito «come prestazione in vista di un utile» e la
«tecnicizzazione dell’insegnamento» a causa dell’uso di test e
quiz o di una «lingua neutra» come l’inglese. I criteri della
valutazione «equiparano assurdamente le facoltà umanistiche a
quelle scientifiche» e considerano un «prodotto» tanto i brevetti
quanto i saggi di storia, letteratura o filosofia. Ciò penalizza la
cultura umanistica – identificata con la «tradizione italiana»
letteraria e politica da Dante a Machiavelli o Leopardi — al punto
di minacciarne la sopravvivenza. Nel mondo anglo-sassone, come in
Francia o in Germania, la critica alla meritocrazia, rappresenta una
casamatta del pensiero ispirato alla critica della «governamentalità
neo-liberale» di Michel Foucault.
L'alternativa
In
quest’ottica va inserita anche la pubblicazione dell’ultimo
numero di Aut Aut (All’indice)
come del numero 358 su «La scuola impossibile». La decostruzione
della valutazione mira ad un modello di conoscenza non riconducibile
ad una razionalità linearmente prevedibile. I saperi dovrebbero
aprirsi alle molteplici dimensioni della vita e della società,
quindi ad una realtà basata sul conflitto e non all’imposizione
dello standard tecnico-economico della meritocrazia.
Roberto
Ciccarelli
E' il modo di valutare che è sbagliato, non il valutare. E questo è da farsi dipendere dal fine: sono più occupati a cercare qualcuno di accondiscendente che qualcuno di competente (che tuttavia proprio per questo potrebbe essere anche orgoglioso). E lo dico in generale, non perché io sia né l'una né l'altra cosa
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