sabato 6 giugno 2015

E TU, DI COSA TI OCCUPI?

Anacronista

"Anch'io voglio spegnere l'audio per godermi la mia strutturale inclassificabilità in santa guerra"

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Diciamo chiaramente che comincio a trovarmi in quella fase in cui alla domanda "cosa fai nella vita?" non sono più ammesse incertezze. Devi definire chiaramente chi sei, impacchettarti in una serie di definizioni esaustive, come attraverso dei tag, non dico che devi trasformarti in un brand ma secondo me, sotto sotto, sì. La sussunzione categoriale del chi sei non può più fare a meno della classificazione lavorativa.

Si comincia da: studi? lavori? Oggi persino alla Biblioteca nazionale (Roma) non mi hanno prestato un libro perché non potevo dimostrare la mia appartenenza a una casella; alle mie ripetute proteste è stato invocato Il Regolamento (Kafka, il mio pensiero è ora rivolto a te); ma il paradosso delle biblioteche con la loro corsa a ostacoli a danno della gente che, dopotutto, chiede solo questa cosa criminale che è il poter leggere, mentre deve perdere tempo a spiegare di non essere un delinquente, è materia per altro post.



In ogni caso l'interlocutore non riesce a rapportarsi a una persona senza previo incasellamento nel tag; non riesce a viversela così, come gli appare, come gli viene, non riesce a viversi il flusso hic et nunc dell'altro/a. Dico: ma non vi annoiate? Io preferisco indovinare, preferisco pormi domande, immaginare un mistero: perché senza etichetta non sapete vivere? (Ahhh, la reductio ad etichettam).

Che poi il lavoro è un meccanismo definitorio assoluto: se dici, operaio, se dici, cameriera, se dici, ingegnere, il tag si frappone fra te e il mondo portando quest'ultimo a fraintenderti definitivamente; da allora in poi la casella colonizzerà la tua esistenza sociale, non ti si permetterà di essere altro, cosicché, anche se adesso sto facendo un certo lavoro, ho come il timore a dirlo. Perché sono infinitamente molte altre le cose che mi interessano, e non una sola di queste può essere ipostatizzata, non una di queste può arrogarsi l'intera me. Valeva sempre, ora che il posto fisso è stato liquidato per sempre vale ancor di più.

E' come pretendere che un tag esaurisca l'argomento, per proseguire con la similitudine. Poi ti fermano per strada due anni dopo, e ti dicono, allora come va con quel lavoro, quando tu sei già diventata un'altra cosa, per il semplice motivo che nessuno può coincidere col proprio lavoro, con uno stage, con una laurea, con un diploma, con quello che volete. Disgraziatamente nel mio curriculum vitae non c'è traccia della mia ricca vita interiore.

Voglio difendermi dai tag, mi perseguitano, io sono anteriore alle caselle, voglio relazionarmi senza protesi categoriali. Si immagini la società come un grande supermercato, ci sono tantissimi scaffali ricondotti a macrocategorie: "salumi", "formaggi", "detersivi", "pentolame". La gente non riesce a orientarsi senza le macrocategorie, si perderebbe fra gli scaffali come in un labirinto. Che straordinaria mancanza di ingegno.

Sono il tipo di persona che alle domande sul privato glissa o mente, detesto dare spiegazioni, per non parlare della mancanza di originalità di chi rompe il ghiaccio facendoti il terzo grado sulla tua esistenza. Me lo ha detto anche J., londinese: è così rude come fanno in Italia, di ficcare il naso nella tua esistenza anche se vi conoscete da trenta secondi.

Cominciano a chiederti cosa fai nella vita, tutto comincia da questa domanda invadente, non riescono a trovarsi davanti una persona senza poterla classificare nello scaffale preposto, che poi, appena tiri fuori questa cosa della filosofia ti guardano con aria di disprezzo, che per quanto mi riguarda chissene frega, ma per amor di antropologia dicono, mio figlio fa ingegneria gestionale, con l'angolo della bocca tirato, ti dicono è dura ma via, c'è l'insegnamento, mentre un retrosguardo di pietà incombe minaccioso; per riempire il vuoto che si è creato tirano fuori l'epica dello stagista che ce l'ha fatta, la mistica del "concorso pubblico", la teologia del "l'hanno preso", che quello dopo sei mesi gratis a Milano gli hanno fatto il contratto, la miracolistica dell'assunzione a culo, l'agiografia del vattene all'estero mia cugina prende duemila euro al mese e si è fatta una famiglia: ma io non te l'avevo chiesto. Con l'aneddotica edificante ho chiuso, e soprattutto io con tutta questa storia non c'entro, perché mi ci mettete continuamente in mezzo.

Devi continuamente badare a legittimarti, esibire una patente, dichiarare la tua appartenenza a un consorzio, giustificare la tua esistenza con un ruolo approvato dalla società, cioè da un certo tipo di società dominante, quello in cui il capitalismo o qualcosa del genere ha deciso che ingegneria gestionale sì e filosofia no. Ma peggio ancora, forse, è quando è il filosofo stesso a farti questi discorsi, a dirti che odia il capitale, che non ci sta a diventare un brand, che il sistema ci opprime, ed è lui il primo a comportarsi come l'intellettuale di se stesso, per citare Rovatti, il self made man delle humanities, quello che stringe le relazioni giuste, fa le comparsate giuste, frequenta i posti giusti, e si muove con la scaltrezza da iniziato in questo ambiente di squali che sono diventate le scienze umanistiche.

Di fronte a entrambi i tipi umani, ti si paralizza il senso di appartenenza al regno del vivente, una morsa di cellophane ti ostruisce i vasi e smetti di aver pietà di chicchessia; personalmente ho smesso di rispondere in modo gentile, avverto l'urgenza di sottrarmi al pattern discorsivo citato e ri-citato da tutti, per dirla postmoderna. Come il signor Givings di Revolutionary Road, che abbassa il volume delle orecchie quando la moglie tira a parlare oltre una soglia sopportabile per leggersi il giornale in santa pace: anch'io voglio spegnere l'audio per godermi la mia strutturale inclassificabilità in santa guerra.

Pubblicato su Anacronismi

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