domenica 30 dicembre 2012

IL PARTITO DELLA FUGA DEI CERVELLI COLPISCE ANCORA

Dicembre è il mese dei consuntivi. E delle offensive del partito della fuga dei cervelli. La sua è una retorica pervasiva, improntata allo sport preferito nazionale - l'autocompatimento e il vittimismo - è riuscita ad imporre nell'ultimo decennio l'idea che in Italia esista un'emergenza "fuga dei cervelli".

Quando la nave affonda, i migliori fuggono
Non c'è ombra di dubbio: da questo paese che affonda, stanno fuggendo tutti, soprattutto i suoi  figli migliori: laureati, che hanno studiato, sul loro "capitale umano" lo Stato ha investito risorse. Non trovano occupazione, e quindi vanno all'estero. E' un mercato globale che premia chi parla l'inglese. Chi ne ha le capacità, e i meriti, lascia la barca, e legittimamente trova un posto di lavoro - in un'università, in un'impresa - dove il suo talento verrà adeguatamente ricompensato.

Questo, più o meno, quello che sappiamo della fuga dei cervelli.

Ma per dimostrare se esiste una "fuga dei cervelli" bisogna conoscere le statistiche. E saperle leggerle.

Uno sguardo, reale, ai numeri
Ufficialmente sappiamo che nel 2011 50 mila laureati sono fuggiti all'estero. Il dato è stato comunicato dall'Istat in un bollettino pubblicato il 27 gennaio 2012. Ed è stato confermato il 28 dicembre, nel report 2011 sulle migrazioni interne ed esterne della popolazione residente nel 2011. La notizia va su tutti i telegiornali, i siti, i quotidiani è stata: aumentano i laureati che fuggono all'estero. Cinquanta mila in un anno è una bella cifra. In dieci anni, i laureati in fuga sono aumentati dell'15,7%, passando dall'11,9% del 2002 al 27,6% del 2011. A causa della crisi, dicono. La meta preferita dei laureati è la Germania dove sembra che nel 2011 siano emigrate 5 mila persone.

Non è la "fuga", ma il movimento delle persone
Ora, se si legge il report dell'Istat emergono alcuni particolari. Il più importante è che nel 2011 sono rientrati in patria 31 mila laureati. L'età media di chi parte è di 34 anni, gli uomini sono il 53%. Quella di chi torna è di poco superiore: 36 anni.

Il primo assunto della fuga dei cervelli viene così abbattuto: il saldo complessivo del movimento tra interno ed esterno del paese (e non della fuga) nel 2011 è di 19 mila persone. Crescono certamente gli espatri, ma crescono ugualmente i ritorni in patria della stessa categoria di età.

Tutta l'attenzione, giustamente, si è concentrata, sui 24enni (39 mila) che sono fuoriusciti. 

Attenzione: questi ragazzi NON sono tutti laureati (che hanno un'età media più alta, come abbiamo visto), tra di loro ci sono anche i diplomati.  Tra il 2002 e il 2012 la tendenza all'emigrazione è cambiata. Ed è significativo che oggi emigrino più i laureati che i diplomati. Ma appunto in quale proporzione?

La quota di laureati passa dall’11,9% del 2002 al 27,6% del 2011, mentre la quota di emigrati con titolo fino alla licenza media passa dal 51% al 37,9%. Cosa significa? I diplomati restano la maggioranza (37,9%), anche se aumentano i laureati (27,6%), tra questi 39 mila.

Questo è ciò che l'Istat dice, ripresa dall'Ismu, Eurostat, Almalaurea e Almadiploma e da molti centri di ricerca che si occupano dell'argomento. Se "fuga" esiste riguarda una ridottissima porzione di "laureati", di certo riguarda i "giovani", ma anche in questo caso si tratta di numeri ridotti. Ridotti rispetto a cosa?

Rispetto a chi resta in Italia.

Nel 2011, le università italiane hanno laureato 215.525 ragazzi (121.065 con laurea di primo livello, 62.482 con laurea specialistica/magistrale e 19.367 con laurea a ciclo unico).

Perché l'attenzione si concentra sui laureati che rappresentano il 27,6% dei 50 mila italiani che nel 2011 sono emigrati e non sulle condizioni di vita, e di lavoro di 215 mila persone che si sono laureate nello stesso anno? E perchè non ci occupa dei diplomati che vanno all'estero, visto che sono di più delle 10 mila persone con la laurea? E i laureati che lavoro svolgono all'estero? sono tutti ricercatori di grido? oppure svolgono lavori precari, magari con la garanzia del reddito minimo che in Italia non troveranno mai? Non lo sappiamo. Anche qui mancano le statistiche.

Forse perché la laurea è il simbolo di uno status (intellettuale, sociale o professionale) che viene riconosciuto solo quando all'incirca 10 mila persone vanno all'estero ma non quando 215 mila restano in Italia. Tutto questo solo nel 2011.

Retoriche (economiche) della "fuga dei cervelli"
Nel 2007, Lorenzo Beltrame, un ricercatore dell'università di Trento, ha avvertito il rischio di sovrastimare la nuova emigrazione italiana, confondendola con quella dei laureati o con i ricercatori che trovano ospitalità nelle università del Nord Europa o in quelle Nord americane.

In un saggio sul «brain drain», la «fuga dei cervelli», Beltrame ha dimostrato che il problema italiano non è la «fuga dei cervelli», bensì l'attrazione di personale qualificato dall'estero. E, aggiungiamo noi, la tutela dei diritti dei "laureati" (e non solo di loro, evidentemente), la garanzia del valore legale e reale del titolo di studio in un mercato che mira alla precarizzazione, dequalificazione e demansionamento di tutta la forza-lavoro.

Beltrame ha passato in rassegna tutte le statistiche allora a disposizione, alcune sono simili a quelle dell'Istat 2012. Tra il 1996 e il 1999, il numero dei laureati con la residenza all'estero non ha mai superato le 4 mila unità. Nel 2006 le cifre del «brain drain» italiano si sono attestate su un livello medio basso. Diversamente da quanto si crede, l'Italia è molto lontana da paesi dove si registrano livelli di «drenaggio» superiori al 50%, con punte dell'80% in Giamaica o Haiti.

Secondo i dati Ocse la percentuale di laureati italiani emigrati tra il 2000 e il 2010 è del 12,4%, 316.572 persone «under 40», una media pari a poco più di 30 mila all'anno. Confimprese Italia sostiene però che solo un espatriato su due si iscrive all'anagrafe degli italiani residenti all'estero (Aire). Quest'ultima cifra dovrebbe essere moltiplicata per due, arrivando a 60 mila nuovi emigranti all'anno, quindi più alto del dato indicato dall'Istat, ma molto al di sotto della media generale Ocse del 23,2%.

In Germania, ad esempio, i laureati che vanno all'estero sono più del 20%, molto di più dei 10 mila italiani. Nessuno grida allo scandalo anche perchè la quota del rientro o dell'attrazione dei "cervelli" stranieri è senz'altro superiore a quella italiana. In tutti i paesi Ocse esiste un'intensa mobilità transfrontaliera, l'abitudine alla permanenza prolungata per lavoro, per studio, per bisogno economico, ben più massiccia dell'emigrazione dei cervelli italiani. Questo dicono i dati.

E' solo una questione di Pil?

Perché con una percentuale modesta di emigrazione "intellettuale" in Italia si grida allo scandalo? Il partito della fuga dei cervelli risponde che questi laureati rappresentano i migliori cervelli italiani. E' vero?

E' difficile dimostrarlo. Per una ragione: l'Aire, l'anagrafe degli italiani all'estero non censisce il numero dei residenti in base al titolo di studio e, cosa ancora più importante, in base alla professione. I numeri che l'Istat propone vengono presi dalle anagrafi nazionali. Spesso chi risiede all'estero non cancella la propria cittadinanza italiana. Se gli va bene, acquisisce quella del paese di residenza.

Risultato: non sappiamo con certezza quanti "cervelli" italiani (vale a dire scienziati che producono brevetti o fanno i medici in equipe potenti) risiedono all'estero. Per queste ragioni non possiamo sapere con certezza la quantità di Pil che le loro scoperte sottrarrebbero alla ricchezza nazionale. Ne avvertiamo la presenza dalle università, o dalle industrie, dove lavorano queste persone, ma non nelle nostre. In altre parole, non conosciamo esattamente il valore che la "fuga" sottrae al Pil nazionale. Non conosciamo se i laureati emigrati lavorino all'estero, per quanto tempo. E non sappiamo con precisione se ritornano e dopo quanto tempo. Lo possiamo immaginare, ma non ci sono i dati.

I dati esistenti spingono gli studiosi a considerare normale il livello di espatrio tra i lavoratori qualificati (con laurea o dottorato) rispetto al tasso di migrazione generale che è molto più alto. Nonostante tutto in Italia la cifra modesta dell'espatrio dei laureati viene considerata un'eccezione. E non può che essere così perché la produttività dei «cervelli» è un tassello del discorso sulla competitività che permea il discorso neo-liberista sulla globalizzazione.

Il movimento è un desiderio
In questa tempesta di cifre sono stati omessi due fattori: il primo è la vita di chi non emigra dall'Italia e svolge il lavoro dei cervelli in fuga in patria. Il secondo, ancora più significativo, è la realtà dell'immigrazione in Italia.

Il movimento migratorio appassiona solo quando coinvolge i connazionali, non gli stranieri. Salvo poi stupirsi dei dati dell'Ismu che nel 2011 ha censito solo 27 mila presenze straniere in più rispetto all'anno precedente quando il saldo si era fermato a 69 mila.

La "fuga dei cervelli" è un dispositivo sicuritario che nasconde la complessità dei movimenti migratori e li descrive solo all'interno delle dinamiche del "capitale scientifico" globale. Nella realtà esistono milioni di persone, laureate e non, precarie e intermittenti, italiane e straniere che rientrano nelle statistiche, ma nessuno ha voglia di vederle.

E' singolare che nella retorica compassionevole sulla "fuga dei cervelli" nessuno abbia riflettuto su un altro dato: i "laureati" che vanno all'estero hanno un'età media superiore ai trent'anni. E chi, laureato, torna in patria ha un'età media sicuramente superiore, ma che si aggira sempre attorno ai 35 anni.

Chi sono queste persone? Perché vanno e vengono dal paese? Non lo sappiamo, ma possiamo immaginarlo, per contiguità amicale, sociale, simpatetica.Per quanto riguarda il lavoro della conoscenza - che è una percentuale esigua, ma mediaticamente significativa nell'elaborazione del discorso sulla "fuga dei cervelli" -ci sono ragazze e ragazzi, laureati o con dottorati di ricerca, incarichi di insegnamento all'estero che non trovano posto nell'università italiana, nè nelle imprese nostrane. Dalla metà degli anni 90 esiste un intenso movimento di queste figure con la Germania, gli Stati uniti, la Francia e molti altri paesi Ocse.

Un movimento, a ben vedere, simile a quello che si svolge all'interno del paese, tra città e cittàE tra le professioni, oltre che nel passaggio dal lavoro al non lavoro. 

La "fuga", e il "ritorno" non sono misurabili solo con i criteri del "capitale scientifico", nè con quelli della "ricchezza nazionale". 

Roberto Ciccarelli

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Per una storia della "fuga dei cervelli", leggi lo STORIFY: IL CERVELLO IN FUGA SARA' IL TUO

13 commenti:

  1. Caro Roberto, questo e' un antico vizio italiano, soprattutto di certa stampa. Quando pubblicai 'cervelli in fuga' per l'Adi il nostro obiettivo era proprio quello di parlare del problema delle condizioni e dell'organizzazione del lavoro nell'universita' italiana (di cui la 'fuga' era un sintomo), tant'e' che facemmo poi uscire 'cervelli in gabbia' (sulle storie di chi era in Italia) a mostrare che erano facce della stessa medaglia (e ovviamente se ne parlo' molto meno). il ricercatore esule ha evidentemente un fascino romantico di retaggio nazionalpopolare (siamo un popolo di navigatori) e un po' provinciale (in Usa o in Giappone nessuno si sognerebbe di commiserarsi perche' un connazionale ha fatto una scoperta lavorando all'estero, ma qui c'abbiamo la coda di paglia). Oltretutto, in tutte queste statistiche sarebbe da discutere come e chi definire un 'cervello', ma e' un discorso un po' lungo. Buon anno!

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  2. Caro Augusto, ma facciamolo questo discorso, mi sembra il luogo adatto e abbiamo tutto lo spazio! Questo è il link al libro dell'Adi di cui parli: http://www.bianchetti.org/ADI/cervelliingabbia/RassegnaStampa/2006-02-AnnaliISS-Alleva-DeFilippis.pdf
    può essere utile alla discussione
    Roberto

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  3. Beh, allora intanto chi dobbiamo considerare un "cervello" (in fuga)? Se devi considerare ricerca pubblica e privata (soprattutto all'estero, dove la ricerca privata non e' una figura leggendaria come da noi), e se esistono corsi di 'scienze enogastronomiche', allora uno che apre un ristorante a New York e' uno scienziato che fa ricerca nel privato? e dunque un cervello in fuga? dove pongo una distinzione? La cosa piu' ragionevole (come fate voi ed altri, ad es. le ricercatrici dell'IRPPS-CNR autrici di bei lavori al riguardo) e' considerare i laureati, usando i dati Istat. Dunque laureato che va all'estero= cervello in fuga? Ma un laureato in economia che va a fare il trader a Wall Street per me non ha molto a che fare col concetto di brain drain... Qui comincia ad affiorare la debolezza dell'approccio 'fuga dei cervelli'

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    1. sono totalmente d'accordo. I dati istat sono strutturalmente incapaci di cogliere la molteplicità delle professioni della conoscenza, che sono ben più larghe di quelle legate alla ricerca tradizionale in laboratorio (fisica, chimica, farmaceutica) e di quelle che possono essere fatte per l'industria ITc o aerospaziale. L'esempio che fai sull'enogastronomia è chiaramente una forzatura, che non va molto lontano dal vero rispetto alla realtà del lavoro postfordista. Ma credo che ci siano ben altri esempi. Mi piacerebbe conoscere l'approccio alternativo alla fuga dei cervelli, secondo te!

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  4. Infatti il punto e' proprio questo. Il mio era chiaramente un esempio estremo, ma neanche troppo. Se intendi per approccio come delimitare il campione 'ricercatori' uno possibile potrebbe essere contare chi emigra da dottore di ricerca o verso un dottorato, ma a parte che non credo sia un dato censito, sarebbe ugualmente parziale se consideriamo il 'cervello' nei termini di elemento di genesi creativa (un po' sull'idea del quinto stato nel vostro libro), che mi piace di piu'. Ma francamente questo livello di riflessione non mi appassiona. Il nocciolo non e' la fuga (vera o presunta) ma qualcosa di cui la fuga e' uno dei sintomi: la carenza, in Italia, di una domanda di competenze creative nei processi produttivi a tutti i livelli, e la consapevolezza sociale - ormai radicata - di questa carenza. Per fare un esempio di segno opposto: quante banche presterebbero 50.000 euro a uno studente per pagarsi gli studi e laurearsi con la sola garanzia delle speranze sul futuro impiego? Negli USA la cosa e' all'ordine del giorno, e sebbene quello sia un modello sociale che personalmente non condivido, e' indice della consapevolezza sociale generalizzata dell'esistenza di una domanda di competenze elevate nel mercato del lavoro e nei processi produttivi.

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    1. beh questa è la proposta di andrea inchino, fratello del neo.montiano pietro: usare il prestito d'onore (introdotto dalla gelmini, ci sono le pubblicità nella metro a roma e un pò ovunque) per dare borse di studio che lo stato taglia da 5 anni. Sono le poste e le banche a praticare le prime forme di indebitamento degli studenti. Sono le premesse per creare una bolla, perchè nel frattempo gli atenei saranno costretti ad alzare le tasse, già lo fanno in realtà, negli ultimji 10 anni si dice del 75%, ma i dati sono ballerini. Francesca Coin ha recentemente scritto questo, è interessante:

      http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/21/debiti-universitari-usa-collassano/447586/

      La notizia l'avevo captata un paio di anni fa, ci avevo scritto, insieme a francesca l'abbiamo riproposta, adesso vedo che una consapevolezza sta prendendo piede anche da noi.

      Non credo che l'indebitamento personale possa essere la strada per l'innovazione, o il finanziamento della ricerca. A meno che non sia a fondo perduto, oppure una partnership dello stato o della banche con un ricercatore o un dipartimento. Ma allora stiamo parlando di chi lavora alla Nasa, non di chi fa una ricerca sul quarto carme di orazio. O di chi fa arte sul web, per dire. oppure ancora attori ecc.

      Certo, il problema è la scarsità della domanda. Quali sono le ragioni? qualche ipotesi:
      http://furiacervelli.blogspot.it/2012/09/la-bolla-formativa-e-esplosa.html

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  5. Secondo me in Italia invece di fuga dei cervelli sarebbe più corretto parlare di evaporazione dei cervelli. Il problema è che le teste vuote con i relativi corpi rimangono in circolazione nel nostro povero paese.

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    1. accade in tutto il mondo, non solo in italia, spesso con conseguenze più tragiche

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  6. Appunto. Ripeto e sottolineo che ritengo il prestito d'onore un modello socialmente iniquo (negli u.s.a. dove ha anche funzionato), e totalmente folle in Italia (dove non funzionerebbe mai). Ma lo prendevo come esempio: se negli usa una banca presta (o ha prestato, sinora) una somma ingente a un ragazzo, vuol dire che si aspetta che la sua preparazione gli dara' possibilita' di restituirlo, quindi che c'e' una percezione sociale di proporzionalita' fra livello culturale/scientifico e probabilità di un buon lavoro. Da noi questa proporzionalita' non c'e' (e anzi credo di aver letto che la differenza fra laureati e diplomati in termini di probabilità di impiego si sta riducendo, ma non vorrei ricordare male). Quindi il problema e' proprio la scarsa considerazione che si ha da noi del valore (anche economico) della creatività e delle competenze. Le ragioni - in sintesi - credo siano nella bassa scolarizzazione degli imprenditori, nella scarsa attitudine al rischio d'impresa innovativa delle banche, e anche nella scarsa necessita' che si e' dimostrata a migliorare la pubblica amministrazione.

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  7. Mi inserisco nel discorso, sono una delle ricercatrici del CNR-IRPPS citate da Augusto Palombini (l'altra è M. Carolina Brandi) e da sempre mi sento fare dai giornalisti in cerca di scoop la fatidica domanda: quanti sono? Chi di noi lavora seriamente su questi argomenti Sa che non c'è risposta complessivamente plausibile ( con tutto il rispetto per l'Istat) nessuno veramente è in grado di saperlo data la mutevolezza della composizione ben tratteggiata dal post e soprattutto da Augusto). Gli stessi dati Usa, di certo tra i più avanzati, ci consentono di quantificare l'emigrazione avanzata - conteggiando i dati dell'H1B VISA- che include di tutto un po' e non solo di certo i ricercatori e assimilati. Ma la questione vera è solo quella di far arrivare persone qualificate o farle tornare almeno con pari dignità di quella che hanno ottenuto all'estero. Fin quando questo paese non sarà in grado di far questo continueremo solo a trastullarci inseguendo falsi scoop e veri depauperamenti nazionali. Vabbè è capodanno sarà un buon proposito del governo nuovo? Auguri a tutti

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    1. Ma piantatela con questo atteggiamento odioso!
      Percepite stipendi statali assolutamente immeritati, dato che il CNR non fa ricerca seria da molti decenni (se l'ha mai fatta). Ho avuto modo di collaborare proprio con la vostra sede ed era tutta gente impreparata e che non sapeva l'inglese. La realtà è che all'estero non vi cacherebbe nessuno e allora siete rimasti a casetta vostra e, dopo 20 anni di leccate di culo, siete riusciti ad installarvi al CNR.
      Roberta

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  8. circolate gente circolate :
    http://mag.studio28.tv/mag/circolate-gente-circolate/

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  9. Tanto blablabla contro il sistema universitario e di ricerca italiani e alla fine chi parla tanto sono quelli entrati al CNR, un carrozzone fatiscente che non porta avanti nessuna ricerca e nel quale i posti sono già assegnati.
    E ancora dal carrozzone stanno a parlare parlare parlare.
    Chi se ne è andato - perché alla fine siamo in pochissimi - era chi veramente valeva e non aveva appoggi, chi sapeva le lingue, chi aveva idee innovative e voglia di fare. Non chi ha leccato il sedere al professore per avere il dottorato! (infatti, noi il PhD lo abbiamo fatto fuori, chissà perché...).
    Cari "ricercatori" del CNR avete rotto con la vostra retorica penosa e vittimistica dei "cervelli in fuga". Volete solo che si parli di voi e scrivete libri fatti di aria fritta, cercate di trovare l'appoggio politico e vi pubblicizzate (sempre politicamente) inviando email a gente che avete visto si e no una volta. Vero Augusto?
    Abbiate almeno la buona creanza di stare zitti, tanto il posto fisso ce l'avete.
    Ad majora
    Roberta

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